LA NASCITA DEL PARTITO POPOLARE A L’ AQUILA

4 Luglio 2020
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di Enrico Cavalli

Don Luigi Sturzo

Don Luigi Sturzo

L’AQUILA – Poco più di un secolo fa, il periodico “La Torre”, organo ufficioso del cattolicesimo aquilano dal 1913, all’inizio del gennaio 1919, prima di chiudere la sua esperienza di importante espressione culturale del capoluogo abruzzese, annunciava il manifesto e lo statuto del Partito Popolare Italiano, nato il 18 dello stesso mese a Roma.

Con la nuova formazione partitica fondata dal coraggioso sacerdote siciliano Luigi Sturzo (1871-1959) aperta «ai liberi e forti», i cattolici rientravano nella vita politica, dopo il “Non expedit” di Pio IX (1792-1878) tra il 1868-74, a seguito della presa di Porta Pia nel settembre 1870, da parte dell’esercito italiano. In realtà, fra Opera dei congressi, risalente al 1874, e una miriade di enti sociali (casse rurali, artigiane, cooperative e varie forme di assistenza), il ruolo attivo dei cattolici nella società italiana non era mancato.

Già a partire dalle prime intese nelle elezioni del 1904, tra Giovanni Giolitti (1842-1928) ed il nobile Vincenzo Ottorino Gentiloni (1865-1916), che sfoceranno in un vero e proprio patto nel 1913 (che un progressista Luigi Sturzo taccerà di clericalismo), i cattolici delegavano la difesa dei loro eterni valori a non sempre irreprensibili deputati e senatori liberali, che erano stati talora, in combutta al radical-socialismo, su temi delicati per le coscienze cristiane come l’espulsione dell’insegnamento religioso dalla scuola primaria.

Avvertito il bisogno, in una società complessa, di una rappresentanza diretta delle ragioni cattoliche in Parlamento, nell’adesione ai principi liberal-democratici, ecco vedere la luce il Partito dello scudo crociato e motto “Libertas”, per la cui sezione aquilana si adoperano soggettività variegate, che avevano a attraversato la stagione modernista, il moto democristiano di don Romolo Murri (1870-1944), del quale si rammenta visita all’Aquila nel 1900; mentre, localmente, si confrontarono col sisma marsicano del gennaio 1915, prima di addentrarsi fra neutralismo ed interventismo, in una Grande Guerra denunciata come « inutile strage » da Benedetto XV (1854-1922) e che darà la stura ai totalitarismi di massa.

Vincenzo Rivera

Vincenzo Rivera

Fautore del popolarismo aquilano fu il patrizio ed erudito Vincenzo Rivera (1890-1967) e facente le prove generali di un cattolicesimo impegnato, proprio, sostenendo il succitato “La Torre”, che lasciava il posto nel 1919 a “Il Popolo”, anticipando di tre anni l’organo nazionale del P.P.I., e poi della futura Democrazia Cristiana. Dietro la testata, per informare le coscienze che tenevano alla difesa della famiglia e moralità, stettero le firme dei giovani laici Giuseppe Berti De Marinis, Giuseppe De Meo, Camillo Tatozzi, Domenico Galli, quest’ultimo, intimo di Sturzo e dei canonici Gaetano Sollecchia e Giuseppe Equizi, autore di una pregnantissima storiografia ecclesiastica aquilana di cui reggerà straordinariamente le fila nel 1940.

La cautela arcivescovile verso il popolarismo cittadino tanto dinamico, si spiega con la preoccupazione di scendere in un agone politico traumatizzato dal peso della Grande Guerra e che vede ora i rivendicazionismi reducisti e i pericoli del biennio rosso, cui presto seguiranno le camicie nere di Benito Mussolini (1883-1945). Anche nel capoluogo abruzzese, le tornate elettorali postbelliche nel Paese, invero, escludenti il voto alle donne nonostante l’endorsement del papato, videro il PPI, partito riformista ed interclassista, terzo incomodo fra un liberalismo in declino e un Partito Socialista Italiano alle prese con la scissione comunista di Livorno del 1921, che annovera fra i fondatori “rossi” l’aquilano Ottorino Perrone (1897-1957).

In contrapposizione ideologica drammatica in Italia, le anime ufficiali del PPI, erano il centro (qui, stavano l’aquilano Rivera e il vastese Giuseppe Spataro (1897-1979), favorevoli ad accordi con il liberalismo; la sinistra, che guardava al riformismo del PSI, la destra, favorevole a riassorbire in schemi moderati, dopo la marcia su Roma del 28 ottobre 1922, le camicie nere di Mussolini, il cui governo, col ministro “idealista” Giovanni Gentile (1875-1944), nel 1923 si mostrava incline a riconoscere il cattolicesimo come religione di Stato, proprio, mentre alle masse dei fedeli giungevano notizie delle persecuzioni ortodosse nella Russia bolscevica.

Alle cruciali consultazioni politiche del 1924, fra brogli e violenze alle urne, massivamente, delle camicie nere, anche nell’Aquilano, il PPI non bissa  i successi precedenti; tuttavia, lo desumiamo dai taccuini doviziosi di Rivera, riuscì a mobilitare nel Circondario energie giovani studentesche e le reti parrocchiali (cosa non scontata per la questione della aconfessionalità presunta del partito dalla scudo crociato) invero, confrontandosi con macchine “acchiappavoti” oliate da decenni e spregiudicate.

Dopo il rapimento ed uccisione da parte della “Ceka nera” dell’onorevole Giacomo Matteotti (1885-1924), la cui famiglia venne protetta a Castel del Monte dal socialista aquilano Emidio Lopardi (1877-1960), amico del deputato rodigino, il PPI, come tutti i partiti che tra divisioni e rivalità avevano deciso di lasciare il Parlamento, fu messo fuorilegge dal fatidico discorso di Mussolini del 3 gennaio 1925.

In clandestinità il cattolicesimo politico opera nei limiti delle efficientissime maglie dell’OVRA, non tuttavia col PPI, bensì per il tramite del cosiddetto Guelfismo d’Azione (una cui sede a Roma, fu alla casa di Spataro, dove pure sorgerà il 19 marzo 1943, la Democrazia Cristiana), mentre don Sturzo dall’esilio di Londra, dal Vaticano consigliatogli per ragioni di sicurezza, contempla i Patti Lateranensi fra Italia e Santa Sede dell’11 febbraio 1929.

Dall’estero i socialcomunisti, repubblicani, liberali, il Guelfismo stesso, lamentarono vicinanza fra clericalismo e fascismo, ma il giudizio sarebbe stato assai da rivedere alla luce del contrasto nel 1930-31, sul piano educativo fra Azione Cattolica e il regime, da cui la enciclica di Pio IX “Non Abbiamo Bisogno”, a ribadire la distanza del cristianesimo dal nazionalsocialismo e dall’ateismo che mutatis mutandis, si avvertiva chiaramente in URSS, Spagna e Messico: rispettivamente, i totalitarismi laicisti, denunciati dalle encicliche “Mit Brennender Sorge”e “Divini Redemptoris” apparse nel 1937.

La controversia, sull’onere della formazione dei giovani italiani si registra in modo assai aspro nell’Aquilano, posto che le autorità di regime additavano i capi dell’Azione Cattolica di essere stati i fondatori del disciolto PPI, il cui significato ideale sarebbe riecheggiato entro la compagine della Federazione universitaria cattolica, molto pregnante nel capoluogo abruzzese, per il convinto appoggio dell’Archidiocesi e per gli agganci dei locali goliardi in futuro professionisti politici; si pensi ad un Lorenzo Natali (1922-1989) a contatto delle altrettanto giovanissime e carismatiche dirigenze Fucine di Aldo Moro (1916-1978) e Giulio Andreotti (1919-2013), del resto, dal mondo studentesco cattolico con la sezione femminile intitolata a Piergiorgio Frassati (1901-1925) e quella maschile a Giuseppe Toniolo (1845-1918), origineranno le classi dirigenti aquilane della Ricostruzione post 1945.

In conclusione, la parabola del PPI, sul piano nazionale come a L’Aquila, era stata troppo complessa e compressa da due guerre mondiali, ma con una eredità di orizzonti ideali e concreti, pronta ad essere colta non solo simbolicamente dalla Democrazia Cristiana, che scriverà assieme alle altre forze politiche sinceramente democratiche, i diritti e doveri della Costituzione repubblicana nel 1948 e che significativamente, all’art.7 ratificava i Patti Lateranensi del 1929. Oltre il confronto con partiti sia avversari che alleati, anche alla Democrazia cristiana toccherà di affrontare il problema della mediazione con le gerarchie vaticane nella storia repubblicana, fino, almeno, al termine della unità politica dei cattolici. Ma questa un’altra vicenda.

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