Ascesa quasi ascetica di uno chef abruzzese di talento In un bel libro di Antonio De Panfilis la vita, le opere e la buona sorte di Domenico Santacroce.

5 Aprile 2018
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Goffredo Palmerini

 

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L’AQUILA – Ci sono persone che con apparente normalità riescono a realizzare la propria vicenda umana con significativi risultati senza subire le seduzioni dell’apparenza, mettendo a frutto il loro talento, la determinazione e la tenacia tipici di certa gente d’Abruzzo. Un caso emblematico è quello a Domenico Santacroce, giovane di Pratola Peligna, che una cinquantina d’anni fa dopo gli studi all’Istituto Alberghiero di Roccaraso scelse le vie dell’emigrazione per meglio conoscere, in eccellenti Resort di Scozia e Londra, tutti i segreti della cucina internazionale e delle buone maniere nei servizi dell’ospitalità e dell’accoglienza. Poi il ritorno nella sua terra, a Sulmona, a mettere in pratica la sapienza acquisita. E insieme a questo il coraggio di scelte imprenditoriali, osate calibrando la giusta dose di temerarietà e di buonsenso. Questa, in sintesi, la storia di Domenico che Antonio De Panfilis racconta con una narrazione avvincente nel volume “Vita, opere e buona sorte di Domenico Santacroce” (Edizioni Tabula Fati), uscito da un paio di settimane e che presto sarà presentato nella città di Ovidio. Un libro intrigante, che si legge tutto d’un fiato. Il volume, per di più, reca una bella Presentazione di Vittorio Sgarbi, una magnifica Postfazione dello scrittore Giovanni D’Alessandro ed in quarta di copertina una nota di Nicola Gardini, scrittore poeta pittore, docente ad Oxford. Tra tali insigni personalità chi scrive, per desiderio dello stesso Domenico Santacroce e dell’autore, ha vergato le pagine dell’Introduzione al volume.

Prossimamente, come si diceva, il volume sarà presentato a Sulmona, con la partecipazione di Vittorio Sgarbi, Giovanni D’Alessandro, Nicola Gardini, Goffredo Palmerini e Antonio De Panfilis, non appena verranno assicurare tutte o gran parte delle loro presenze. Per il momento ecco qualche anticipazione sull’opera. Il libro ha avuto una lunga e laboriosa gestazione, come dichiara nei ringraziamenti l’autore – giornalista ed esperto di comunicazione –, citando la fruttuosa messe di consigli e pareri ricevuti nel corso della preparazione del testo da personalità quali l’antropologo Franco Cercone, l’esperto di erbe officinali Enzo Presutti, biologo e già docente alla Sorbona, l’umanista e storico Mario Setta, lo chef di Villa Santa Maria Antonio Stanziani, erede d’una genìa di cuochi d’altissimo livello, il docente d’italianistica all’Università di Ottawa Franco Ricci, assiduo frequentatore con i suoi studenti degli hotel Santacroce, dal professore e poeta Giancarlo Giuliani, cui si deve l’editing ufficiale del volume, Marco Solfanelli per la casa editrice Tabula Fati, il grande scrittore Giovanni D’Alessandro, che al volume ha regalato una Postfazione ricca di richiami e con una singolare reinterpretazione dell’ovidiana “Sulmo mihi Patria est”. E ancora il prof. Nicola Gardini, insigne latinista, che ha scolpito le sue impressioni sul libro nella quarta di copertina, l’imprenditore della famosa fabbrica dolciaria Antonio Pelino, docente universitario di economia e storia, recentemente scomparso. Infine chi scrive, chiamato a comporre l’Introduzione che apre il volume. Nel libro anche un inserto di 16 pagine d’immagini a colori e una preziosa Appendice culinaria, di 25 pagine, con alcune ricette e menu proposti da Domenico Santacroce, compreso il menu del pranzo preparato per Benedetto XVI – un grande privilegio per lo Chef –, in occasione della visita pastorale del pontefice a Sulmona, il 4 luglio 2010, nell’ottavo Centenario della nascita di Celestino V.

Mi fermo sempre all’Hotel Ovidius –scrive tra l’altro Vittorio Sgarbi nella pagina di Presentazione – quando passo per Sulmona. Sempre. Forse perché ciò che mi ha colpito di più è la collezione di opere d’arte su tela appese alle pareti. I quadri. Non poteva essere diversamente, direbbe qualcuno, dato il mestiere che faccio. Ricordo che capitai lì nella hall, non so come, una prenotazione casuale, anni fa. E scorgere prima un dipinto di Formichetti… e poi un bozzetto di Carrà, distribuiti anche per le scale di quell’hotel che affaccia sulla splendida cattedrale di San Panfilo, beh, un po’ la percezione complessiva della giornata l’aveva cambiata. Migliorata. […] Questo libro rappresenta la vita di un abruzzese come tanti che, nei fatti, come tanti non è. Anche perché Domenico Santacroce ha avuto l’accortezza di donare un luogo d’arte a un luogo di lavoro e di accoglienza. “Arte dell’accoglienza”, non solo in senso lato. Ha reso un servizio in più al cliente, ma anche alla città stessa, già di per sé ricca di storia e convergenze culturali. Quando un imprenditore fa un po’ di più rispettosa quanto il mercato gli richiede, oltre a muovere dei flussi di gente per mestiere, ebbene egli adempie ad un compito che è proprio dell’arte e della vita stessa, quello di alzare – conclude Sgarbila fantasia e i circuiti dell’animo, le declinazioni interiori che avvicinano l’uomo a qualcos’altro”.

Singolare la Postfazione di Giovanni D’Alessandro, scrittore che non finisce mai di stupire. Confidenziali e colloquiali le sue annotazioni rivolte all’amico Domenico Santacroce, che definisce “mahatma”, specie per quel tratto quasi spirituale con il quale Domenico affronta le ascese del monte Morrone alla ricerca di erbe ed essenze che impreziosiscono di sapori i suoi migliori piatti. “[…] Volendo farti una lode indiana, – annota tra l’altro D’Alessandrovorrei scrivere che sei un mahatma, o almeno un piccolo mahatma, cioè una piccola grande anima, operante non sulla riva del Gange, ma del Gizio. Il racconto di tutta la tua vita contenuto in questo libro lo conferma. E comunque, religione o non religione, sei uno dei grandi peligni. Lo sei nella concretezza dell’attività quotidiana dell’imprenditore come nell’hobby dei fornelli. Le virides malvae di Ovidio, le carni dell’agnello, del capretto, del manzo da lui celebrate, nelle luculliane mense del tempo di Augusto, uno come te di certo lo aspettavano da un paio di millenni. Adesso voglio chiudere con un’altra cosa che forse ti divertirà e non so se sia mai stata scritta, della nostra città. […]”. E qui Giovanni D’Alessandro dà una sua versione ulteriore del motto ovidiano Sulmo mihi Patria est, che il brillante scrittore reinterpreta in senso culinario. Lasceremo la cosa in sospeso, per la curiosità dei lettori.

“[…] Un momento fondamentale di questo libro – scrive in quarta di copertina Nicola Gardini –, che è molti libri insieme, sta nel racconto della guarigione da un male mortifero che Domenico ha saputo darsi attraverso l’esercizio appunto della conoscenza di sé, quasi da filosofo antico. Come ancora oggi sale per le balze del Morrone a raccogliere erbe, così questo perenne migrante della volontà scende per i valloni del cuore e delle viscere e si cerca, salvandosi. La sua maestria culinaria non è disgiungibile dalla sua eccellenza umana: il rispetto e la cura degli altri che la buona cucina rappresenta sono anzitutto vocazione e impegno alla dignità personale. Con queste briose pagine, piene di humour, di esperienze e di saggezza, Domenico Santacroce ci consegna un meraviglioso esempio di amore della vita e di serietà morale. La sua vicenda fortunata di picaro abruzzese ci comunica tante bellezze, tanti momenti di storia italiana (e non solo), ma soprattutto una verità fondamentale: che il male non si supera senza sofferenza”. Perché della storia di Domenico Santacroce, raccontata nel libro, s’abbia qualche indicazione in più, qui di seguito si riporta il testo dell’Introduzione al volume.

Domenico e Antonella Santacroce.

Domenico e Antonella Santacroce.

«Ho letto con grande piacere ed interesse questa biografia di Domenico Santacroce. Davvero con piacere, perché Antonio De Panfilis l’ha scritta “in punta di penna”, come si dice quando la scrittura è bella, viva, intrigante, e il linguaggio raffinato, colto e coinvolgente. Frequenti richiami ad altre discipline, arti e culture arricchiscono di sfaccettature una storia di vita, quella di Domenico Santacroce, che si rivela di pagina in pagina avvincente. Un’avventura densa d’antica sapienza contadina innestata ad una curiosità intellettuale cospicua, ad una tenacia solerte e consapevole, in costante ricerca di novità e d’innovazione. Una bella storia di riscatto, di coraggio, di talento e determinazione, la vita di Domenico. Similmente alla migliore cifra della gente d’Abruzzo che, partita dalla propria terra difficile e grama, ha scritto straordinarie pagine di successo in ogni angolo del mondo. Una storia connotata anche dall’emigrazione, sebbene diversa e singolare rispetto alle storie che oltre un milione e trecentomila abruzzesi hanno vissuto in ogni latitudine.

Dell’emigrazione italiana, ed abruzzese in particolare, abbiamo recentemente parlato alla presentazione d’un libro tenutasi proprio al Meeting Santacroce Hotel, una delle “opere” che si devono alla lungimiranza e al talento imprenditoriale di Domenico. Dell’epopea migratoria italiana abbiamo in quell’evento fatto cenno, quando a cavallo di due secoli quasi 30 milioni di nostri connazionali lasciarono l’Italia per cercare lavoro all’estero. Ora gli oriundi italiani nel mondo sono diventati 80 milioni, un’altra Italia più numerosa dell’Italia dentro i confini. Hanno dovuto superare prove durissime, umiliazioni e pregiudizi, prima di potersi conquistare il rispetto e la considerazione. Il rispetto l’hanno conquistato sul campo, grazie alla laboriosità, all’ingegno e all’intraprendenza creativa, come pure alla correttezza dei loro comportamenti, guadagnandosi la stima e l’ammirazione con testimonianze di vita esemplari.

Uno degli esempi commendevoli, quantunque si tratti d’una storia d’emigrazione durata solo alcuni anni, riguarda proprio Domenico Santacroce. La sua emigrazione inizia nel 1969, in Scozia. Si completa poi a Londra, dove resta due anni fino al 1975. Preceduta nel 1967 da puntate interne, diciassettenne e ancora studente, a Lido di Camaiore, Punta Ala e Porto Santo Stefano. Un’emigrazione sempre alla conquista della conoscenza, del migliore livello di professionalità nel campo della ricettività e della ristorazione. Un po’ si assimila alla più recente emigrazione, che da una ventina di anni sta interessando la nostra Nazione, con un flusso in uscita di quasi centomila persone l’anno. Sono per la gran parte giovani con laurea o diploma, in cerca di lavoro ma anche di esperienze nuove. Sono giovani che vanno in università prestigiose a specializzarsi dopo la laurea, giovani che trovano occupazione in importanti centri di ricerca. Vanno talvolta per qualche anno, almeno questo ritengono. Pensano di rientrare appena possibile. Trovano alle volte opportunità interessanti, perché i nostri laureati – come recentemente affermava il prof. Eugenio Coccia, Rettore del Gran Sasso Science Institute – dimostrano nella loro preparazione doti di maggior equilibrio e una cultura umanistica non riscontrabile altrove. Alcuni rientrano, altri contano di rientrare, altri ancora restano. E si realizzano. L’Italia avrebbe tutto da guadagnare se queste intelligenze potessero rientrare trovando in patria adeguate opportunità.

Questa, in nuce, è stata anche la ventura di Domenico Santacroce. Diplomato alla Scuola Alberghiera di Roccaraso: una scelta di studi già tutt’un programma nella testa del giovane di Pratola Peligna. Quegli studi, a quel tempo molto basati sulla formazione pratica, gli avrebbero consentito un posto di lavoro in alberghi e ristoranti nell’Altopiano delle Cinquemiglia, nella Valle Peligna o nel resto d’Abruzzo. Ma Domenico aveva ben chiaro il suo disegno, il sogno nel cassetto: quello di conoscere il meglio, di puntare all’eccellenza, di scoprire ogni dettaglio sulla qualità della buona cucina, sull’arte della sua presentazione, sull’inappuntabilità dello stile del servizio. Partì così in un giorno d’aprile del ’69, in treno. Un lungo viaggio verso le alte terre di Scozia. Un lavoro presso un Resort di gran classe. Forte quindi il desiderio di conoscenza, di mettersi in gioco pienamente, contando su una determinazione senz’ombra di cedimento. E sulla “buona sorte”. D’altronde, la fortuna aiuta gli audaci. Nel percorso di Domenico grandi Maestri del mestiere, di sala e di cucina. Davvero eccezionali. Per lui poi l’esperienza a Londra, in un grande albergo, uno dei migliori della City, con le sfide sempre affrontate e vinte. Avrebbe potuto fermarsi a Londra, con un futuro promettente. Ma Domenico voleva vincere nella propria terra, mettendo là a frutto il suo sapere, la sua voglia d’innovare. Coniugando l’alta cucina internazionale con gli antichi sapori e il ricco patrimonio della cucina tradizionale abruzzese e della cultura contadina.

Dunque una storia ricca d’iniziative, quella di Domenico, rafforzata dall’incontro con Antonella, straordinaria compagna di vita e di impegnative imprese condivise. Scelte coraggiose, insieme, nelle decisioni degli investimenti. In Domenico un grande talento, anche imprenditoriale. Sorprendente, come nel caso della repentina “conquista” dell’immobile che sarebbe diventato l’Hotel Ovidius. I sogni che diventano realtà. Poi una dura realtà, l’arrivo d’una grave malattia. Il mondo che sembra crollarti addosso. La sfida più importante, per la vita. Affrontata e vinta, quando la battaglia era già stata data per persa. Quindi il ritorno sulla scena, più deciso che mai. Sono capitoli d’una storia così ben narrata che è giusto gustare dalle pagina che l’Autore ha così magnificamente confezionato per i lettori. De Panfilis ci fa vivere con intensità pensieri, sogni ed emozioni di Domenico. Ci accompagna nei luoghi con descrizioni dettagliate e richiami puntuali. Ci contorna la narrazione, scorrevole e sovente letteraria nella forma, con i personaggi che significativamente incrociano la vita di Domenico. Li conosciamo quasi da vicino, nella loro mentalità, indole e sapienza.

Ne vien fuori non una biografia, che per quanto curata conserverebbe tuttavia una sua “distanza”, ma un vero “romanzo di vita” che coinvolge emotivamente il lettore e lo immerge in un continuum di fatti, sensazioni, riflessioni e curiosità rivelate, come appunto nelle migliori narrazioni. Domenico Santacroce, da questa operazione biografica, non riceve solo il dono di veder raccontata la propria vita, con il pregio degli eventi salienti così nitidamente evidenziati. Ha in più il privilegio di poter mettere a disposizione del pubblico – fatto che gli sarebbe stato precluso, se non altro per ragioni di stile e opportunità, se fosse stato egli stesso a raccontarla – una testimonianza palpabile e compiuta di quanto determinazione e volontà di realizzarsi possano incontrare il successo, nel contempo esaltando il valore antico del patrimonio culturale della propria terra. Nella gastronomia questo concetto vale come in ogni altra “arte”, nell’accoglienza alberghiera altrettanto. In questi campi, forse più di altri, se declinati sinergicamente alla cultura e alle tradizioni dei luoghi, l’anima vera della nostra terra può mostrare il volto più bello e suggestivo.

In fondo a questa storia c’è anche un modo esemplare di come il talento, coniugato alle riscoperte radici culturali d’un luogo, possa dare esiti di notevole respiro. Domenico è uno Chef che il desiderio di conoscenza e di perfezionamento ha portato in giro per l’Europa a confrontarsi con i grandi Maestri dell’haute cuisine – Belloni detto “Zeffirino”, Gérard Boyer, Ferran Adrià, ma anche Stanziani detto “Pacitto”con la voglia di migliorarsi sempre, in una formazione continua. Con la semplicità del tratto e la sua bonomia, con tutti egli è riuscito ad aprire le porte della confidenza. Da tutti ha attinto saperi e segreti. Ma il vero salto di qualità si rinviene nella sua capacità d’inventare ricette nuove, con i sapori e gli odori più autentici della sua terra. Come sta pure nella propensione ad accogliere ogni ospite e ogni cliente, nelle sue strutture ricettive, con lo spirito di far sentire ognuno a casa propria, quasi in famiglia. Con un livello di professionalità e di servizio, però, elevati all’eccellenza. Una qualità professionale ed un’attitudine che gli hanno consentito l’onore di preparare il pranzo a papa Benedetto XVI, nella storica visita pastorale a Sulmona, il 4 luglio 2010.

Dalla sua esperienza di Chef e di accorto imprenditore, così come dalla sua stessa storia d’emigrazione, si ricava il senso del valore d’una vita vissuta con coraggio, con fiducia nelle proprie risorse e con fede. E con una visione di futuro che sa traguardare oltre l’orizzonte, utile non solo per sé e per la propria famiglia, ma per l’intera comunità peligna ed abruzzese. Domenico Santacroce dispone di quel coraggio, di quella fierezza, di quell’orgoglio positivo degli antichi Peligni che, un secolo prima della nascita di Cristo, nella Lega Italica osarono sfidare e combattere contro i Romani, diventando poi di Roma alleati e cives per il loro valore. A Domenico va dunque la gratitudine d’aver indicato una strada nuova in un settore importante dell’economia abruzzese: un Turismo di qualità che sappia mettere “in concerto” enogastronomia, arte, cultura, tradizioni, singolarità, sapori e meraviglie d’un Abruzzo ancora da scoprire nei suoi tesori più nascosti. La storia d’una parte importante della sua vita, come ben è raccontata in questo libro, attraverso queste pagine potrà essere più latamente conosciuta. Con l’augurio che nuove avventure, simili a questa, sappia intraprendere la tenace gente d’Abruzzo per costruire il suo futuro.»

Antonio De Panfilis “Vita, opere e buona sorte di Domenico Santacroce” (Edizioni Tabula Fati, Chieti 2018, pp.168, € 15)

 

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