Il ragazzo caduto dal cielo. Vita e morte di Ahaddy Lampo

22 Maggio 2014
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di Mauro Montanari *

FRANKFURT – La notizia è breve. La leggo quasi di sfuggita sull’Abendblatt online. “Gli abitanti di un sobborgo della capitale nigeriana di Niamey hanno visto il corpo di un ragazzo precipitare a terra dall’alto. Il ragazzo era caduto da un Airbus della compagnia Air France in volo verso Parigi.”

Com’è possibile? Caduto da un aereo? Faccio brevemente alcune ricerche. La notizia è ripresa anche da altri giornali tedeschi e da alcuni (pochi) francesi. Riesco alla meno peggio a ricostruire la storia. Il ragazzo si chiamava Ahaddy Lampo; era nato diciotto anni or sono a Ouagadougou, in Burkina Fasu: nel quartiere più povero di una delle città più povere del mondo. In una baracca di circa 20 metri quadrati, egli viveva insieme ai genitori e ad un numero non precisato di fratelli.  Giocava molto bene a calcio ed aveva già provato due volte ad ottenere un Visum per l’Europa, ma senza successo. Il suo sogno era il Paris St. Germain. La squadra di Zoumana Camara.

All’aeroporto di Ouagadougou andava volentieri, tra un allenamento e l’altro. Gli piaceva vedere gli aerei decollare; uno spettacolo affascinante per uno come lui che sognava soltanto di andarsene. Fu durante quelle visite che probabilmente maturò l’idea di un viaggio clandestino. Senza biglietto e senza Visum, via, verso Parigi. Come? Non doveva essere difficile. Nel vano portabagagli, no! Perché è chiuso e controllato. Ma lo spazio di contenimento delle ruote? Quello non e controllato!

Il piano era semplice. Ahaddy sarebbe entrato durante la notte, avrebbe scavalcato le recinzioni, si sarebbe arrampicato su una delle ruote, ed avrebbe trovato un posto per accucciarsi nel vano di rientro del carrello. Ed avrebbe semplicemente atteso. Atteso. Atteso.

Il vano del carrello di un Airbus A 330 è grande circa come un garage. Quando il carrello è rientrato, una persona può trovare comodamente un angolo in cui accucciarsi. Certo, il rischio di rimanere schiacciati da una ruota durante la manovra, è grande, enorme; ma senz’altro Ahaddy aveva valutato questa possibilità. Conoscenze tecniche il ragazzo non ne aveva. Come avrebbe potuto? Che scuola può mai frequentare un ragazzo che nasce in una baracca della bidonville di Ouagadougou, e che cresce nella stessa baracca, in cui sono nati e cresciuti anche i suoi genitori ed i suoi nonni, e il cui valore commerciale, secondo la France Presse, è di 15.000 franchi westafricani, cioè circa 23 euro? Che scuola potrebbe mai frequentare un ragazzo nato e cresciuto in quelle condizioni? Nessuna. Ahaddy era semplicemente analfabeta. Però era anche un intelligente osservatore e, nelle sue lunghe soste davanti ai vetri dell’aeroporto di Ouagadougou, aveva annotato mentalmente tutte le operazioni necessarie per arrivare al suo scopo.

Poi il grande giorno arriva. È un martedì di metà marzo. Alle ore 23, 26 è previsto il volo Air France AF547 per Parigi. 4090 kilometri con scali a Niamey e Algeri. Arrivo al Terminal 2 dell’aeroporto Charles De Gaulle dopo circa 12 ore di volo. Ma cosa sono 12 ore, di fronte alla vita intera? Al benessere? Al futuro? A un lavoro pagato tutti i mesi? Al rispetto della gente? Magari ad un ingaggio al Paris St. Germain? Magari all’amore, e al matrimonio con una ragazza francese?

Ahaddy Lampo raggiunge il suo vano e si accuccia per non essere visto. L’Airbus si alza con qualche minuto di ritardo. Il rumore è infernale. Ahandy si morde le labbra, ma può soltanto aspettare, aspettare, aspettare. Poi l’aereo finalmente prende quota. Forse dalla fessure del carrello, il ragazzo può vedere le luci della pista allontanarsi sempre più. Il rumore, proprio a cospetto di uno dei motori è più che infernale. Ahaddy si tura le orecchie come può. Dura poco, pensa. Soltanto qualche ora! 12 ore, e poi la libertà!

Intanto, soltanto a qualche metro da lui, nella cabina passeggeri, la luce rimane spenta per il decollo. Quando si riaccende, qualche minuto più tardi, l’aereo ha già una velocità di 530 kilometri orari e viaggia ad un’altezza di alcuni chilometri. Il segnale di slacciare le cinture è già scattato. La temperatura nella cabina è ora di 19 gradi. Alcuni passeggeri si lamentano a causa dell’aria condizionata, ma questa è routine. Le hostess passano e sorridono. Molti si accucciano già sotto le coperte grigie marcate Air France. Dodici ore sono lunghe per tutti. Intanto l’aereo raggiunge la velocità di crociera di 685 kilometri all’ora. La temperatura esterna si irrigidisce man mano sempre più. A quell’altezza sono già meno undici gradi.

Ahaddy intanto è accucciato nel suo angolo nel vano carrello, ma il freddo ormai non lo sente più, perché in quel momento, con ogni probabilità è già morto; e non soltanto a causa della temperatura, ma soprattutto per la mancanza di ossigeno. Non lo sapeva, del freddo e della mancanza di ossigeno. E come avrebbe potuto saperlo? E poi probabilmente era stato anche ferito durante il rientro del carrello, perché c’erano  tracce di sangue sulla parete del vano e sulla ruota.

Il corpo viene catapultato fuori dall’aereo nel momento in cui l’Airbus inizia le manovre di atterraggio ed estrae i carrelli in vista dell’aeroporto di scalo di Niamey. I ragazzi nigeriani che lo vedono cadere, parlano più tardi di una traiettoria ellittica, forse a causa del vento. Poi il corpo di Ahaddy piomba sul terreno ad una velocità di quasi 200 kilometri all’ora. Alcuni corrono per curiosità, ma c’è poco da vedere. C’è anche molta indifferenza. I più riprendono a giocare. Morti ce ne sono tanti da quelle parti; la notizia è poco interessante.

A noi questa notizia invece interessa. La morte di quel ragazzo è un simbolo. Come lui sono morti in tanti e nella maniere più diverse. È ora di fare qualcosa.

*L’autore è direttore de Il Corriere d’Italia. Giornale per gli italiani in Germania.

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