Storie fantastiche dal cratere aquilano. L’ASILO

10 Febbraio 2013
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di Luigi Fiammata

L’AQUILA – Viale Duca degli Abruzzi ormai non lo cammina quasi più nessuno. E’ diventato un vicolo cieco, da quella notte. Si interrompe al ponte del Belvedere. Che ancora nessuno sa se può sostenere qualcosa, a parte l’asfalto della strada e i ricordi. Una volta, il traffico sul viale faceva traboccare il vaso. Specialmente all’orario d’ingresso e di uscita delle scuole. Tanto che, se in quei momenti un’ambulanza avesse dovuto passare di lì, tra macchine parcheggiate in tripla fila, autobus urbani ed extraurbani, avrebbe potuto farlo solo se dotata di ali e d’infinita pazienza. Ora, invece, il boato delle foglie che cadono d’autunno, quando arrivano a terra, scuote le case puntellate. La sera poi, il silenzio annerisce il buio che avvolge tutto e sarebbe persino possibile inseguire, coi passi, i raggi di luna, unica luce accesa, camminando piano, con il ritmo della terra che ruota. Le finestre hanno gli occhi chiusi e i cancelli di ferro hanno coltivato ruggine sui cardini.

C’era un asilo, una volta, sul viale.  E una volta capitava, passandoci al fianco a metà mattinata, magari una mattinata di primavera, di ascoltare le voci colorate dei bambini. Onde, nel piccolo mare del giardino cintato di mura, aperto solo all’azzurro del cielo. Voci e richiami, capaci di spegnere il traffico e lo smog intorno. Adesso, di notte, invece, dentro, respirano sparsi scricchiolii spezzati. E non sono le pietre che stridono e scivolano cercando un equilibrio nuovo dopo i crolli. Non sono neanche i moderni ladri della zona rossa, in cerca del fasciame delle barche distrutte dal naufragio. Dentro l’asilo ci vive Francesco.

Francesco, all’asilo, ci è arrivato quasi due anni fa. Un po’ per caso, e tanto per necessità. Due anni fa, più o meno, è morta sua madre. Di dolore e di sogni finiti. Francesco viveva con sua madre e con la sua pensione, che serviva almeno a pagare l’affitto e qualche bolletta. Fin quando c’è stata, la pensione. Poi è arrivato lo sfratto e, a trent’anni, Francesco s’è ritrovato con tante strade intorno e nessun tetto che gli rimboccasse le coperte. E aveva iniziato a girare per L’Aquila, portandosi dietro i resti della sua vita passata e un vecchio paio di trampoli. Per questo, quando era passato un mattino davanti alle transenne dei Quattro Cantoni, e aveva visto tutte quelle chiavi senza porta, lì appese, ne aveva rapita qualcuna.

Con quelle chiavi in tasca, di notte, aveva cominciato a provare ad aprire portoni. E, del tutto inaspettatamente, una di quelle chiavi aveva aperto le porte dell’asilo. L’asilo sembrava essere stato percorso da una festa frenetica e urlante, il pavimento era coperto di giocattoli e matite frantumate. Dai muri scolavano disegni bellissimi, già mangiati in parte dall’umido e dalle lacrime di pioggia che, evidentemente, erano filtrate dal tetto. Ma era confortevole l’asilo. Accatastati in un canto c’erano grandi tappeti gialli di gomma, su cui stendersi per dormire. E c’erano i bagni, ancora funzionanti, e, persino una piccola cucina a gas che ancora faceva fuoco senza esplodere. E pentole.
Francesco aveva così trovato casa. E festeggiò subito, quella notte, facendosi un caffè caldo, con quello che riuscì a trovare, e che era rimasto lì, fermo nel gelo dell’abbandono da almeno un anno. Come aver ritrovato un vecchio amico.

Bastava rispettare alcune regole, nella nuova casa. Vincere sempre la tentazione di provare ad accendere la luce. Rendendosi invisibile soprattutto di notte. Usare l’acqua e il gas al minimo indispensabile, giusto per le necessità non comprimibili. E ringraziare, almeno una volta al giorno, quel santo che s’era dimenticato di staccare da lì tutte le utenze. Francesco si era inventato un  lavoro da mimo-pagliaccio-saltimbanco-mendicante. Per mangiare e bere, aveva scoperto quanto fosse utile frequentare i cassonetti dell’immondizia posti alle spalle dei grandi supermercati; per esempio intorno alle 13 e 30, al cambio del turno del personale, al supermercato sopra il cimitero. Era possibile trovare merce scaduta il giorno prima o verdure non sufficientemente luccicanti e però ancora buone. E Francesco aveva fatto amicizia con una delle commesse del supermercato; una ragazza rotondissima e sempre sorridente che lo aspettava, per lasciargli prendere il cibo migliore, prima di buttar via tutto il resto. E per vestirsi, Francesco aveva imparato a scassinare quei contenitori gialli dell’abbigliamento scaduto, posti in giro per la città, e svuotati periodicamente da misteriose associazioni benefiche forse senza scopo di lucro.

Un mattino Francesco mischiò insieme un po’ di vestiti per impersonare un vagabondo americano degli anni ’20 del secolo scorso e imbracciò una specie di banjo lacerato recuperato tra i calcinacci di un negozio di strumenti musicali in via Garibaldi; si dipinse il viso di bianco con le labbra e le gote e il naso rossissimi da bevitore impenitente e si andò a piazzare su uno dei basamenti che sostenevano i lampioni in piazza del Duomo. Restava lì immobile, fin quando qualcuno non avesse lasciato qualche moneta nel cappellaccio posato a terra. Allora si scatenava, fingendo di suonare, in una pantomima sgangherata che si concludeva con un gran ruzzolone a terra, che doveva apparire del tutto casuale e fragoroso. Suscitando insieme risate e preoccupazione.

A metà mattina, quando ancora non si era avvicinato nessuno, scorse da lontano due donne, seguite da un cagnolino bianco e baffuto. Il cagnolino si fermò ad annusare il cappello, girandoci intorno, come per trovare il lato giusto dove alzare la gambetta. E ogni volta che sembrava fermarsi, Francesco cercava di compiere un movimento impercettibile ma brusco, che lo spaventasse almeno un po’, convincendolo a cercare altrove il gabinetto giusto. Sembrava quasi che i due si fossero messi d’accordo, agli occhi delle due donne che si avvicinavano ridacchiando.

Quella bionda era un angelo dal viso imbronciato e le labbra piene, leggermente piegate verso il basso; quella bruna era una statua di Venere, con i tacchi altissimi, e riempiva i vestiti lussuosi di tanta carne buona. La bionda rideva di gola, mentre cercava di richiamare il suo cagnolino ad una maggiore educazione. E, come per premiarla della comprensione, Francesco iniziò la sua recita. Ispirata. L’assenza di parole dei suoi movimenti scomposti era una musica dal ritmo segreto, e, quando cadde per terra, precipitando sul cuscino messo a protezione del sedere sotto i pantaloni approssimativi, la bionda gli corse incontro per soccorrerlo, mentre la mora rideva con i denti bianchissimi, sotto il rossetto scuro. Francesco si rialzò con una piroetta su sé stesso, riprendendo da terra il cappello, poggiandolo sulla testa e togliendoselo subito dopo, mentre si inchinava goffamente rivolto alle due donne. Il cane eccitato cercava di mordergli i polpacci e Francesco cercava di allontanarlo, scalciando all’indietro come un mulo gentile.

E fu allora che la mora gli propose di presentarsi il pomeriggio del giorno dopo nel giardino di un albergo sulla strada per Scoppito, per fare uno spettacolino in occasione della festa per i dieci anni della sua bimba. Non ci aveva ricavato un euro dalla pipì del cagnolino, Francesco, però aveva trovato un ingaggio. Quella notte, Francesco nell’asilo non riusciva a dormire. Si sentiva le gambe elettriche e lo stomaco annodato. E vuoto. Da una finestra rotta, sotto il tetto, filtrava il rumore di una stella lontana. Bionda come un angelo dalle labbra corrucciate. E Francesco avrebbe voluto saper suonare davvero; una serenata dolce come il sospiro di un fiore.

All’ingresso dell’albergo, due tronchi d’uomo tutti tatuati e con la testa rasata non lo facevano entrare, fin quando non arrivò la mora a sorridere per lui. Indossava dei pantaloni così aderenti che si sarebbero potuti scorgere i pori della pelle leggermente irritata dalla depilazione, e una scollatura generosa come il lavoro del chirurgo estetico. Pesava di gioielli e capelli cotonati dalle arti del parrucchiere E camminava su un paio di stivaletti neri dal tacco che trapassava le formiche su prato. Gli invitati alla festa lo guardavano col naso arricciato dall’odore stantìo dell’asilo. Giacche doppio petto e cravatte finto Cambridge. Scarpe come guanti sui calli e guance riempite di buffet. Orologi che costavano più del tempo.

I bimbi erano tutti in cerchio, seduti su sedie annoiate, impegnati a pestare con le mani sui tasti di piccoli apparecchi elettronici che gorgogliavano segnali ipnotici. Francesco si piazzò sul prato, in mezzo a loro, seduto su un enorme pallone di gomma celeste, e iniziò a rimbalzare come se fosse in groppa ad un toro imbizzarrito E, ad ogni salto, urlava lasciando cadere dalle tasche cioccolatini che gli erano costati gli ultimi euro rimasti, e che nessuno raccoglieva. I bimbi sembravano disturbati dai suoi schiamazzi scalcagnati. E si svegliarono solo quando una nonna dai capelli ramati annunciò l’arrivo della magnifica torta. La bimba di dieci anni ricevette il suo regalo dalle mani piene di unghie artistiche della mamma mora. E, sorridendo, scartò il fiammante I-Cellulare numero 8. Poteva scattare subito mille foto della festa e condividerle su faccialibro con i suoi amici. Come la mamma prontamente la incitò a fare. Tra gli applausi.

Sotto un albero, un po’ lontano dalla carta gettata a terra di tutti gli altri regali scartati, Francesco vide la bionda. Che cercava di allontanare da sé un figuro scuro e alto, con i capelli brizzolati e i baffi forforosi. Francesco, senza pensarci, si avvicinò velocemente ai due. La rincorsa serviva per caricare uno splendido calcio nel sedere dell’energumeno. La bionda sorrise, e Francesco iniziò a scappare inseguito dall’uomo, sempre più velocemente, fin quando si bloccò improvvisamente mettendosi in posa da pugile. Il tizio allora gli si buttò addosso furioso, e Francesco, scansandosi, lo sgambettò facendolo volare dritto nella torta piena di panna che esplose tutto intorno.

Forse alla bionda piacerà l’asilo. Sull’orlo di un tramonto.

luigifiammata@gmail.com

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