La difesa dell’Identità Europea

10 Dicembre 2012
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Dall’Egitto alla Tunisia arrivano moniti
a una maggiore difesa della propria identità

Per difendere la nostra tradizione che deriva da millenni di civiltà cristiana,
esiste una sola via d’uscita: il categorico rifiuto ad accettare comportamenti
e tradizioni sociali  che non appartengono al nostro retaggio.

di Fabio GHIA

TUNISI – Quanto sta accadendo in Egitto in questi giorni è percepito dalla cultura occidentale come una forma di “risentimento” popolare nei confronti sia di un provvedimento che dà pieni poteri al Presidente Morsi, sia di una proposta plebiscitaria sulla nuova “Costituzione”, che reintroduce crismi “sharjiatici” di riferimento sociale. In toni nettamente inferiori, lo stesso dibattito si è acuito anche in Tunisia. Nella sostanza, il fronte Fratelli Musulmani e i Salafiti (che predicano un ritorno all’Islam dei primi tre Califfi 672 DC) in Egitto e El Nhadha e i Salafiti in Tunisia, stanno trovando difficoltà a mettere in pratica il Wahabismo Saudita finanziato dal Qatar e approvato dagli USA, che vorrebbe riportare l’Islam a riferimento per la costituzione delle nuove Repubbliche post “Rivoluzione”. A contrapporsi a queste politiche Islamiste, in entrambe le nazioni, ci sono i Modernisti (cioè apertura dell’Islam alla cultura occidentale, dando pieni diritti di parità alla donna e meno rigore nella tradizione sociale) e i laici, soprattutto in Tunisia. Le forze di opposizione, in entrambi i Paesi, rappresentano di gran lunga l’attuale maggioranza politica del Paese, purtroppo divenuta minoranza ufficiale o per astensionismo dal voto (Tunisia) o per cambio orientamento politico di altri partiti, in Egitto.

L’aspetto più interessante dei nuovi moti di “assestamento” dei Paesi Arabi riguarda ancor più la forte percentuale di “emigrati” in Europa: la Tunisia il 10% della popolazione, l’Egitto l’8%. Durante le elezioni per il rinnovo del parlamento del’anno scorso, i voti degli emigrati in Italia e in Francia sono andati dal 70% al 90% ai partiti Islamisti. Questo fenomeno non è ascrivibile a forme di radicalizzazione verso una maggiore religiosità, bensì al ritorno ai valori sociali fondamentali imposti dal corano e dalla Sunna, in particolare nell’ambito della vita familiare. Certamente, quindi, non un rifiuto a vivere in occidente, ma una rivalutazione della propria identità, in particolare in ambito familiare, in relazione alle prescrizioni religiose previste. Il vero problema, dunque, è il volere coranico, che influenza il comportamento di molti immigrati musulmani. Cosa che va ben al di là delle possibilità di comprensione da parte nostra, in quanto, rifacendosi al dettame “cristiano”, proprio del nostro retaggio, il messaggio di Cristo non impone norme sociali o di convivenza, se non sotto forma di “amore” da trasmettere al prossimo e mai come imposizione coercitiva. Ben diversa è la cultura musulmana che, per contro, è impregnata del dettame Coranico, preso a riferimento soprattutto per il sociale e l’etica di gruppo.

Certamente non è l’Islam, in quanto religione, che va messo in discussione. Il Corano è considerato dai musulmani come il verbo di Dio al popolo e, in quanto tale, è logico che il mondo islamico lo segua nell’essenziale e le altre religioni ne rispettino i crismi e i precetti. Ben diversa è la percezione dell’obbligatorietà di comportamento e il riflesso sociale che questa religione impone. A differenza del Cristianesimo e, nell’era moderna, anche del Giudaismo, il Corano vincola il comportamento e il modo di vivere del credente musulmano a dei crismi, legiferati poi nella “sharija”, che sono propri di quella cultura, ma che differiscono se non addirittura si scontrano con il costume e la tradizione di vita occidentale. Anche se la Legge Coranica nella sua integrità è applicata solo in alcuni paesi Musulmani, non di meno gli effetti sul costume e le tradizioni di vita sono evidenti. L’uso del velo ne è un esempio. In Tunisia, Habib Bourguiba, che ha dato l’indipendenza al paese nel 1957, vietò l’uso del velo nell’amministrazione pubblica e sconsigliò fortemente alle donne di portarlo in pubblico.

Così è stato sino alla “Rivoluzione” di questi giorni che ha portato anche a un ritorno alla cultura tradizionale. In particolare, una “condizione femminile” ben diversa da come noi occidentali la concepiamo. Ai fini della procreazione, un musulmano non rinnegherà mai la propria religione e anche considerando le aperture al matrimonio misto, i figli saranno comunque considerati e registrati quali “musulmani”. Nel 2011 la percentuale di migranti musulmani verso l’Europa ha raggiunto quasi la totalità. Quella che stiamo vivendo è anche una “naturale” tendenza a trasformare l’”identità” delle nostre origini. Soprattutto in Italia, l’accondiscendenza e l’ignoranza dell’altrui cultura ingenera indeterminazione tra “accoglienza” e “permissivismo”, consentendo, anzi, assumendo spesso le difese per l’affermazione di una diversa cultura, che esuli dalla consolidata tradizione, a livello regionale.

Per difendere la nostra tradizione che deriva da millenni di civiltà cristiana, esiste una sola via d’uscita: il categorico rifiuto ad accettare comportamenti e tradizioni sociali che non appartengono al nostro retaggio. Che ben venga dunque quanto hanno fatto in Francia dallo scorso 11 aprile, con il divieto di vestire il “burqa” o il “nijab” in luoghi pubblici. E’ un richiamo a tutta l’Europa per una chiara negazione di comportamenti non tradizionali. Bisogna comunque fare di più. Certamente non contro la dottrina islamica, che è da rispettare in quanto tale, ma soprattutto nel rilancio dell’educazione della nostra gioventù a quei valori sociali che hanno fatto della nostra Italia, la figura della mamma in particolare, un riferimento a livello mondiale per tradizione e comportamento. La nostra identità e tutto ciò che ci riporta alle radici romane e cristiane da cui deriviamo. In quanto tale va difesa e preservata attraverso l’educazione (la famiglia) e la formazione (la scuola).

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