I “MONELLI”. LA MIGRAZIONE STAGIONALE ABRUZZESE

25 Aprile 2006
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“Settembre, andiamo. E’ tempo di migrare. Ora inTerra d’Abruzzo i miei pastori lascian
gli stazzi e vanno verso il mare…”: è la poesia di G. D’Annunzio che ha reso universalmente famosa la migrazione degli abruzzesi in altre regioni più ricche, in una stagione in cui si era costretti, a causa del freddo intenso e delle abbondanti nevicate, a rimanere tappati in casa davanti ad una credenza sofferente e ad un camino fumoso e scoppiettante. Ancora oggi, sono in tanti a pensare che l’unico fenomeno abruzzese del passato sia stato la pastorizia, meglio conosciuta come transumanza, intensamente praticata sin dall’antichità, come sistema viario dedicato e organizzato g i à s o t t o l a Roma i m p e r i a l e , successivamente regolamentato nel 1447 sotto Alfonso I d’Aragona nella “Dogana della Mena delle pecore in Puglia”, ma non è così. Accanto alla migrazione dei pastori, rimasta in funzione fino agli inizi del secolo da poco trascorso, c’è stata quella degli operai agricoli (i bracciali), dei mietitori, dei cuocitori (ossia dei carbonai per la produzione del carbone e dei calcaioli per la produzione della calce viva), dei cavallari, dei sandolari (addetti al trasporto a mezzo cavallo o mulo o barca), dei bonificatori, dei sarcinatori e via elencando. Tutti questi erano comunemente chiamati monelli, ma non nel linguaggio popolare di ragazzo, poco educato, il classico ragazzo di strada, indisciplinato, pieno di malizia e furberia, ma per indicare i prestatori d’opera, emigranti nello Stato Pontificio, indipendentemente dalla loro età, che, al contrario, dovevano essere di età maggiore e atti al mestiere.
Qualche ragazzo veniva impiegato in lavori minuti, nelle cosiddette compagnie bastarde, concernenti il rifornimento di acqua e la vigilanza alla carbonaia durante la combustione, specie durante l’arco notturno, ovvero addetti alla pulizia del campo seminato a grano, dal tempo della seminagione fino alla mietitura.Anche le donne, sebbene in minor misura, venivano ingaggiate per assolvere i lavori bassi, di tipo agricolo, come quelli della semina e della mietitura, cui s’aggiungevano, volta per volta, quelli classici, destinandole alla cucina, al riassetto degli alloggi (rudimentali capanne) dei braccianti. Q u e s t a situazione era comune in quasi tutto l’Abruzzo e, in massima parte, nella C o n c a P e l i g n a , considerata per tutto il secolo XIX e il primo ventennio del successivo, come la zona più povera di una delle regioni più povere d’Italia, dal reddito da vera fame. Tra queste ultime acquistano particolare rilevanza i comuni d’Introdacqua, ma anche di Bugnara, di Pratola Peligna, di Anversa degli Abruzzi, di Prezza, di Raiano, di Roccacasale e della stessa Sulmona, per la migrazione del bracciantato nel litorale tirrenico e dell’Agro romano (Terracina, Cisterna, Castel Fusano, ecc.). La migrazione Cansanese era rivolta preminentemente alla specialità dei cuocitori della pietra, i calcaioli, mentre i carbonai provenivano prevalentemente da Pettorano sul Gizio e dalla provincia di Chieti, da Letto Palena, da Lama dei Peligni, da Collemacine. I carbonai rappresentavano l’elite dell’emigrazione stagionale del bracciantato abruzzese; il loro lavoro era durissimo e si svolgeva da scuro a scuro, vale a dire per ventiquattro ore al giorno. Essi giungevano sul posto qualche settimana dopo che i tagliatori avevano già approntata la legna da cuocere, cioè da trasformare in carbone. Arrivavano sul finire di novembre per far ritorno alle loro case nel giugno successivo (la consegna doveva essere fatta entro S. Giovanni, 24 giugno), in squadre composte mediamente da 6/8 elementi specializzati, includendo sempre un ragazzo da impiegare, come ho detto poc’anzi, in servizi logistici piuttosto leggeri e di guardia alla carbonaia durante la notte. Allo stesso modo i quocitori della pietra partivano da Cansano per fare altrettanto per le calcaiole. I carbonai dovevano cuocere separatamente il legno dolce da quello forte, in quanto erano differenti i tempi di cottura e diverso era il pregio del prodotto finito. Altrettanto i calcaioli dovevano conoscere la pietra adatta per ricavarne calce di qualità. Il carbone – ben cotto, di buona qualità, di non trapassato di fuoco e netto di terra, tizzi e tara – veniva raccolto in sacchi di iuta e trasportato con muli e cavalli (i cavallari provenivano da Castrovalva e Anversa degli Abruzzi) nelle zone interne o tramite i sandalari (i sandali erano piccole barche da trasporto) attraverso i fiumi e il mare a tomoleto, a caricatoio di barca. L’arte di fare il carbone è antichissima e, purtroppo, si è persa per sempre, con l’ avvento del gas butano in bombole e di metano e altri generi di combustibile meno inquinanti, rivelatisi in questi ultimi tempi abbastanza costosi perché importati dai Paesi dell’Est. Di carbonai ormai se ne contano molto pochi. Per ricordare questo mestiere, ormai di fatto estinto, qualche tempo fa gli ultimi operai rimasti, si sono accinti ad organizzare, a scopo didattico, per lo più rivolto ai giovani, una carbonaia in un’aia ai piedi di Pettorano sul Gizio, completamente funzionante. La stessa esperienza è stata ripresa a Cansano dagli ultimi cuocitori della pietra, con altrettanto successo. Dopo la scarbonatura e il trasporto del prodotto finito alle zone di caricamento e di consegna, intervenivano i sarcinaroli, quasi sempre dello stesso paese dei tagliatori, che avevano il compito di raccogliere le frasche, che si vendevano a basso costo, lasciando perfettamente pulito il luogo per evitare che si verificassero focolai d’incendio, con la conseguente distruzione delle macchie. Tanta accortezza dei nostri avi al riguardo, nell’oggi sono svanite, con la presenza di specialisti incendiari che stanno conducendo, invece, una campagna sistematica volta alla distruzione di ettari di bosco a scopo estorsivo o per adibirlo ad altri usi tra cui, in primo luogo, all’edificazione selvaggia. Nell’oggi – e sempre con più frequenza nella stagione estiva – i movimenti migratori di un tempo fatti per necessità, con i loro ricordi, i canti, le tradizioni, le povere pietanze (in primo luogo la polenta), vengono rinnovati ed offerti come prodotto turistico durante le sagre e le feste paesane, ai visitatori curiosi, provenienti da ogni dove. Non c’è paese, dalla più piccola frazione alla città, che nei mesi invernali o estivi, in concomitanza del sempre più ricco flusso turistico, coincidenti con le festività natalizie o le escursioni in montagna, non organizzino tavolate e passeggiate, con dimostrazioni didattiche; il tutto allietato da musiche e canti tradizionali zonali. Al flusso migratorio verso il Lazio e il Tavogliere Pugliese, ormai giunto alla soglia zero, del primo Novecento, a partire dagli anni Ottanta è subentrato il flusso turistico in senso contrario. Adesso sono i romani, i pugliesi e campani, come anche qualche comunità americana, che si allontanano dal caos delle loro città, non più a misura d’uomo, per riversarsi nei nostri luoghi, ancora allo stato brado e ospitali, acquistando casolari e terreni, a basso costo, degustando i piatti tipici di un tempo che fu, nel quale era tutto più sano e genuino, lontano dal mondo contemporaneo, caratterizzato dall’usa e getta, dalla violenza, dall’opportunismo e dalla disumanizzazione. Del fenomeno migratorio molto ha s c r i t t o l o s t u d i o s o introdacquese B e r a r d i n o F e r r i (Japadre,1995) , attingendo da d o c u m e n t i n o t a r i l i c o n s e r v a t i nella Sezione dell’Archivio di Stato di Sulmona. Al dotto Autore rimando, quindi, il lettore curioso che vuole saperne di più di quel periodo nel quale nel molto peggio si stava certamente molto meglio dell’oggi, come lo stanno confermando le tante campagne promozionali turistiche offerte dalle pro-loco e dalle amministrazioni comunali.

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