Giuseppe Arnò, Direttore della Gazzetta Italo-Brasiliana,
Editoriale novembre 2025
C’è voluto quasi mezzo secolo, una sfilza di governi, un cimitero di buone intenzioni e, per non farci mancare nulla, 88 processi al povero Berlusconi, di cui alcuni hanno avuto più udienze che puntate di Beautiful, ma alla fine ce l’abbiamo fatta. L’Italia ha approvato la riforma della giustizia che introduce la separazione delle carriere tra magistrati giudicanti e requirenti, principio di civiltà giuridica che in qualsiasi altro Paese europeo sarebbe sembrato… ovvio. Da noi, invece, è stata una rivoluzione copernicana, un po’ come scoprire che il sole non gira attorno al PM.
“Traguardo storico”, ha detto la premier Meloni. E ha ragione. Dopo decenni in cui le toghe si sono abituate a passare con disinvoltura dal ruolo dell’accusa a quello del giudice, come se bastasse cambiare toga per cambiare prospettiva, si ripristina finalmente quel confine invisibile ma fondamentale tra chi indaga e chi giudica. Una linea che tutela non solo gli imputati, ma anche la credibilità della magistratura stessa, che da troppo tempo paga la confusione dei ruoli e la tentazione, talvolta irresistibile, di “fare politica” invece di applicare la legge.
Un Paese in cui il giudice decide anche il destino del Parlamento
E che fosse ora, lo dimostra l’ultimo episodio: la Corte dei Conti che boccia la delibera sul Ponte sullo Stretto. Non un dibattito tecnico, non un rilievo contabile, ma un vero e proprio veto politico, come se la sovranità popolare dovesse chiedere il permesso per attraversare lo Stretto. Ecco l’ennesimo esempio di come la giurisdizione, quando smette di controllare e inizia a sostituirsi al legislatore, smarrisce la sua funzione e diventa una scorciatoia pericolosa, e inquietante, per chi pretende di “difendere la democrazia” togliendo potere a chi ne è la fonte: il popolo.
Il fantasma del Cavaliere
Qualcuno, lassù, oggi sorride.
Silvio Berlusconi, che della riforma della giustizia fece la sua crociata personale, probabilmente brinda nell’aldilà con più soddisfazione di quanta ne ebbe in vita, tra un rinvio a giudizio e una sentenza d’appello. Gli avevano dato del perseguitato e del visionario: ebbene, oggi la sua “visione” è scritta nella Costituzione. Marina Berlusconi lo ha detto con semplicità: “È la vittoria di papà”. E in effetti lo è. Ma, più ancora, è la vittoria del buon senso, che ha impiegato solo settant’anni per arrivare in aula.
Addio alle correnti, bentornato merito
La riforma istituisce due Consigli Superiori della Magistratura, uno per chi giudica e uno per chi accusa, più un’Alta Corte disciplinare che, almeno sulla carta, dovrebbe servire a rendere la magistratura più responsabile e meno corporativa. E qui entra in scena un’altra parola magica: sorteggio. I membri laici e togati saranno estratti a sorte: un’idea che scandalizza solo chi, finora, preferiva la cooptazione di corrente. Il caso, insomma, come antidoto al cerchio magico delle toghe.
Naturalmente, l’Associazione Nazionale Magistrati ha gridato allo scandalo: “Si altera l’equilibrio dei poteri”. In effetti sì: si riequilibra un sistema che da tempo pendeva tutto da una parte. Dopo quarant’anni di “autogoverno”, con carriere decise da correnti e logiche interne più da gruppo di potere che da organo costituzionale, un po’ d’aria fresca non guasta.
La paura dei “pieni poteri”
Le opposizioni, prevedibilmente, hanno agitato il solito spauracchio: “Meloni vuole i pieni poteri!”. Già sentita, e non fa più effetto. In realtà, ciò che la riforma toglie sono i poteri opachi di un potere non eletto, che nel tempo si è allargato fino a mettere becco nelle scelte del Parlamento, del Governo, e talvolta perfino dell’economia.
Chiamatela come volete, ma questa non è la resa dello Stato di diritto: è la sua rinascita.
Ora la parola agli italiani
Il prossimo passo sarà il referendum confermativo: niente quorum, solo il giudizio dei cittadini. E qui la domanda sarà semplice, quasi disarmante:
volete una giustizia che torni ai cittadini, o vi accontentate di lasciarla ai magistrati?
Chi pensa che tutto vada bene così com’è, tra processi infiniti, sentenze che smentiscono le urne e toghe che scambiano la toga per un microfono, voterà No.
Chi crede invece che una giustizia più chiara, più efficiente e meno politicizzata sia il primo passo verso una democrazia adulta, voterà Sì.
Concludendo:
Per settant’anni abbiamo avuto una giustizia che “funzionava” così bene da farci diventare campioni europei di prescrizioni e risarcimenti per errori giudiziari. Adesso, forse, cominceremo ad avere una giustizia che funziona e basta. E se a qualcuno manca la toga con i superpoteri, beh… c’è sempre Halloween.



