Antinatalismo, ambientalismo e la sfida filosofica della responsabilità umana

1 Giugno 2025
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“La responsabilità è il prezzo della grandezza.” – Winston Churchill

di Carlo Di Stanislao

Una volta era il buco dell’ozono a terrorizzare l’umanità, poi vennero le piogge acide, l’Amazzonia in fiamme e infine la plastica che avrebbe dovuto segnare la fine del nostro rapporto con il pianeta. Negli anni ’70, il Club di Roma profetizzava l’esaurimento imminente di ogni risorsa: oro, mercurio, stagno, zinco, rame, piombo, gas, tutti destinati a finire entro un arco di due decenni. La paura demografica si impose come nuova apocalisse, con libri come “Famine 1975!” e “The Population Bomb” di Paul Ehrlich che dichiaravano la fine della battaglia per nutrire l’umanità. Oggi sappiamo che quei pronostici erano profondamente errati: un miliardo di persone è uscito dalla povertà estrema, l’aspettativa di vita è aumentata globalmente e persino la NASA conferma che la Terra è più verde oggi rispetto a vent’anni fa.

Eppure, nonostante i dati e il progresso, la paura apocalittica non solo è sopravvissuta, ma ha assunto la forma di una nuova religione secolare: l’antinatalismo, un culto oscuro che considera la nascita di nuovi esseri umani una colpa ambientale e sociale da estirpare. Movimenti radicali come il Voluntary Human Extinction Movement e gruppi di eco-terroristi che hanno compiuto attentati seguono questa ideologia, promettendo “la sterilizzazione del pianeta dalla malattia della vita”. L’antinatalismo ha spostato la sua ombra sinistra dal pessimismo economico e demografico degli anni ’60 a un antiumanesimo misantropico, in cui l’estinzione volontaria della specie umana diventa il traguardo auspicato.

Questa svolta, tutt’altro che marginale, ha trovato spazio e consenso crescente nei media mainstream, nel mondo accademico e persino nella filosofia morale, con opere come “Meglio non essere mai stati” di David Benatar o i saggi del belga Théophile de Giraud che perorano la rinuncia alla procreazione come gesto etico supremo. Un sondaggio globale pubblicato sul Lancet ha rivelato che il 39% dei giovani esitano a fare figli per timore del cambiamento climatico, mentre riviste prestigiose come Vogue riflettono su come avere figli possa essere considerato “vandalismo ambientale”. L’antinatalismo è diventato persino un fenomeno di moda culturale.

Tuttavia, questo approccio radicale ignora una serie di elementi storici, scientifici e filosofici fondamentali, rimanendo prigioniero di un nichilismo che rischia di diventare la nuova forma di oscurantismo. Per capire la portata di questa ideologia e la sua insidia, è necessario fare un passo indietro e analizzare le profezie sbagliate e le realtà del progresso, per poi riflettere sul significato profondo della responsabilità umana alla luce della filosofia.

Negli anni ’70, le previsioni di un collasso imminente delle risorse si sono rivelate clamorosamente errate. Il Club di Roma annunciava l’esaurimento totale di oro, rame e gas entro pochi anni, una catastrofe inevitabile che avrebbe posto fine alla civiltà industriale. La realtà invece ha visto nuovi giacimenti, innovazioni tecnologiche e soprattutto una gestione più efficiente delle risorse. Parallelamente, le previsioni malthusiane sulla crescita demografica incontrollata e la conseguente carestia sono state smontate da progressi agricoli come la Rivoluzione Verde e la diffusione di pratiche mediche che hanno aumentato l’aspettativa di vita. La paura della “bomba demografica” ha prodotto però danni sociali enormi, alimentando politiche di controllo demografico invasive e spesso disumane, come la sterilizzazione di massa in India e la dittatura del figlio unico in Cina.

Oggi, nonostante l’innalzamento delle sfide ambientali, la scienza ci mostra una Terra più resiliente e un’umanità che ha saputo trasformare le sue condizioni di vita. L’equilibrio ecologico è fragile, certo, ma la narrativa della fine del mondo imminente è spesso distorta da visioni ideologiche che non tengono conto delle potenzialità umane.

Al centro di questa riflessione si colloca il filosofo Hans Jonas con il suo “Principio responsabilità”, che ci invita a prendere sul serio l’impatto delle nostre azioni sul futuro del pianeta e delle generazioni a venire. Jonas non chiede la rinuncia alla vita, bensì un’etica nuova in cui la responsabilità verso il futuro guida le scelte presenti. La vita, per Jonas, è un valore da proteggere e coltivare, non da cancellare.

Questa posizione è in netto contrasto con l’antinatalismo contemporaneo, che spesso si avvale di un antiumanesimo radicale: l’uomo viene definito “virus”, “patogeno” e la sua stessa esistenza vista come un problema da risolvere. Ma filosofi come Bruno Latour e Philippe Descola denunciano l’errore di questa visione dicotomica, che separa la natura dall’umano, alimentando una sorta di misantropia che nega il valore stesso della vita. Latour sostiene che non è il virus a essere agente di cambiamento negativo, bensì l’uomo, ma questo non può giustificare la negazione della nostra stessa esistenza. Piuttosto, occorre ripensare il rapporto tra uomo e natura superando la tradizione giudeo-cristiana di dominio e distruzione.

La tradizione filosofica occidentale, da Aristotele a Kant, ha sempre cercato di conciliare l’essere umano con la natura in una prospettiva di eudaimonia, ossia di fioritura dell’individuo e della comunità. Rinunciare a questa tensione vitale significa consegnarsi a una regressione morale e culturale, allontanandosi da una vita piena di senso e impegno.

La sfida del futuro, dunque, non è quella di sterminare l’umanità o ridurne la presenza con campagne di sterilizzazione forzata o di rinuncia individuale, ma di costruire un modello di sviluppo sostenibile che riconosca i limiti ambientali senza rinunciare al progresso e alla dignità umana. Questo implica innovazione tecnologica, riforme sociali, ma soprattutto un’etica nuova, fondata sulla responsabilità e la consapevolezza.

L’antinatalismo, con la sua deriva nichilista e apocalittica, rappresenta il rischio di una nuova forma di oscurantismo che, sotto la maschera dell’ambientalismo, coltiva in realtà l’odio di sé e il disimpegno morale. La vita non è un virus, ma la più grande risorsa di cui disponiamo per affrontare le sfide ambientali e sociali.

In conclusione, è necessario rilanciare una visione che unisca umanesimo e sostenibilità, progresso e responsabilità, per affrontare le crisi con coraggio e intelligenza. Solo così potremo trasformare la paura della fine in una promessa di rinascita, senza cedere alla tentazione di una decrescita suicida e antistorica.

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