L’AQUILA CITTA’ GUELFA E NON GHIBELLINA

9 Giugno 2021
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PREFAZIONE DI GIUSEPPE LALLI

Nella densa nota storiografica che segue, Enrico Cavalli, penna assai nota ai lettori di “Assergi Racconta” e a quanti nel nostro capoluogo si interessano di storia locale, autore di saggi sulla storia dell’Aquila, alcuni dei quali riguardanti il fenomeno sportivo, ripercorre brevemente, ma con grande competenza, la storia delle origini della nostra città, sfatando il mito della fondazione da parte di Federico II (mito fiorito e alimentatosi all’ombra di precisi interessi ideologici) e riaffermando, a dispetto di presunte origini ghibelline, il concetto che essa fondazione avvenne «entro inequivocabili contorni guelfi». In questo modo Cavalli fa giustizia di un’idea, che negli ultimi tempi ha trovato molti estimatori, che fu tanto cara al filosofo tedesco Friedrich W. Nietzsche (1844-1900).  Infatti, nel suo libro autobiografico dal titolo “Ecce Homo. Come si diventa ciò che si è”,  scritto cinque anni dopo un viaggio in Italia, Nietzsche ricorda che, trovandosi a Roma nella primavera del 1883, pensò di lasciare la città e di recarsi in Abruzzo, a L’Aquila. Riferendosi alla Città Eterna, annota: «In fondo, questo luogo, il più indecente fra tutti sulla terra per il poeta di Zarathustra, luogo che non avevo scelto liberamente, mi infastidiva oltre misura; tentavo di evadere – volevo andare all’Aquila, l’antitesi di Roma, fondata in odio a Roma, come il luogo che un giorno io fonderò, in ricordo di un ateo e nemico della Chiesa “comme il faut”, uno degli esseri a me più affini, il grande imperatore Federico II di Svevia»

Si sa che Nietzsche, il padre di tutti i nichilisti e il profeta della morte di Dio, autore che tanto piace a certi intellettuali italiani alla moda, non ha mai brillato per precisione filologica, avvezzo com’era a piegare la storia alle suggestioni del suo inquieto ed inquietante pensiero. Federico II, che sia da considerare o meno il fondatore della città dell’Aquila (Enrico Cavalli, con buoni argomenti, sostiene di no), soprannominato per le sue doti fisiche e intellettuali stupor mundi, sarà stato pure ghibellino, cioè fautore, come i suoi avi, della supremazia dell’Impero sul Papato, ma in alcun modo rassomigliava a Nietzsche, né si dichiarava ateo e nemico del Cristianesimo.

In realtà, contrariamente a quanto asserisce con disinvolta ignoranza il filosofo tedesco, all’ombra del Gran Sasso non sorse alcuna  “anti-Roma”, ma, semmai, ad essere fondata fu “un’altra” Roma – come Cavalli tiene a precisare – e tale è rimasta nell’immaginario collettivo, se è vero, come è vero, che un papa la scelse come sede della sua incoronazione e una storia secolare ce la mostra come un luogo dove vita civile e vita religiosa sono mirabilmente compenetrate.

L’aver richiamato all’interno di una esemplare disamina storica questa vocazione della nostra città non è certo l’ultimo dei meriti  dello scritto dell’amico Enrico Cavalli, storico di vaglia e intellettuale fuori dal coro assordante di un certo pensiero dominante. (g.l.)

Basilica di Collemaggio

L’AQUILA: CITTÀ GUELFA E NON GHIBELLINA

                                     di Enrico Cavalli

Nella Vallata sabino-vestina, secondo l’Italica denominazione, dal IX secolo, finite le incursioni barbariche e saracene e dissoluzione delle feudalità carolingie, emerse una ripresa sociale per via dell’”incastellamento” normanno.

L’osmosi fra abbazialità cistercense e potere civile, in virtù della ripresa di transumanza alle Puglie e dei pellegrinaggi in Terra Santa, preludeva all’integrazione degli antichi contesti amiternini e forconesi.

Ciò risaltava dalla solenne missiva di papa Gregorio IX del 27 luglio 1229 al vescovo di Forcona, Tommaso Da Padula, ivi insediatosi da tre anni, per soprassedere dalla formazione di una città in chiave del “nobilato” nella Vallata dell’Aterno, ma non realizzabile per la vittoria dell’imperatore Federico II di Svevia sulle ribelli baronie d’area e fino a Celano.

Quella attesa edificazione doveva compiersi nel pianoro di proprietà pontificia, appunto, in base ai privilegi dei Franchi al papato e rinnovati da Ottone I di Sassonia a Giovanni XII nel 956, cioè, nel sito di Santa Maria di Acquili-Acculas, appartenente al castello di Pile e prospiciente l’Aterno: questa cospicuità parrocchiale era stata consacrata da un altro episcopo forconese, Odorisio, nel 1195.

Quel disposto papale fu seguito da altra missiva, ed analoga per finalità, del 7 settembre 1229, sottesa a far desistere l’imperatore Federico II di Svevia dai suoi propositi di controllare l’area in oggetto e che registrava eventi architettonici e sociali: dalle chiese di San Pietro di Coppito, San Nicola D’Anza, San Giorgio di Goriano Valle, poi, Santa Giusta di Bazzano, alla piazza mercatoria ex antico foro romano; dall’arrivo dei transfughi della baronia celanese sanzionata dai “fulmini” imperiali nel 1230; all’approdo dei Francescani, sospinti a valle dall’influsso cistercense dell’abbazia di Santo Spirito ad Ocre e dagli stilemi normanni.

Dietro queste dinamiche, la regìa del cancelliere imperiale e cistercense Gualtieri di Ocre, non scevro dai contatti coi cavalieri Templari e che forse, aventi in zona la chiesa di San Tommaso, si dirigono al porto adriatico della romana Ostia Aterni, e poi longobarda, Piscaria, per andare alle Crociate in Terrasanta.

Il succitato agglomerato satellite di Acquili-Accula, si sarebbe fusa con l’entità urbana frutto della libera volontà delle genti amiternino-forconesi dei ’99’ castelli, sia per sganciarsi dalle feudalità, sia per avere un centro di scambio indotto dalla Transumanza.

Nasce Aquila nel 1254, a quattro anni dalla scomparsa di Federico II e beneficiante Sulmona, secondo la Costituzione di Melfi del 1233, di Fiera, Università e Giustizierato dell’Aprutium; dunque, la regionalità, ai confini nord del regno meridionale, possedeva una sua fisionomia, incentrata sulla città ovidiense, ossia, una “capitale” che l’imperatore non poteva far insidiare da un urbe concorrente come quella aquilana, in grado per posizione strategica e risorse di avere uno sviluppo incessante.

Per la costruzione di Aquila, necessariamente, rientravano le adesioni di papa Innocenzo IV, detentore di quelle terre per il precedente “Privilegium Otonis”, e, di Corrado IV che a dispetto della sovranità paterna soppressiva dei Comuni a Cortenuova nel 1237, prende atto della emersione delle città territorio e lo farà in Aprutium in rispetto ad Atri.

L’instrumentum corradiano va a riconoscere con diploma la nuova urbe strategica fra ‘Furconis, Amiterni, videlicet ab Urno Putrido, Beffi, ac Rivo Gambario usque Cornu putridu et Montem Regalem”, anzi, compiacentesi di assonanza del nome di “Aquila”con l’emblema di casa sveva: con ciò siglandosi un raro momento di tregua fra i “due pilastri della Terra”.

Stette, Aquila, entro inequivocabili contorni guelfi: il pontefice Alessandro IV patrocinava gli aquilani in base alla Bolla papale del 22 dicembre 1256, incitati al sostegno di Edmondo, figlio di Enrico III d’Inghilterra, pretendente a togliere il trono di Sicilia al rampollo legittimato di Federico II, Manfredi; pesava la missiva “Potestas et Commune Aquilensium” al re d’Inghilterra nel luglio del 1258, in risposta ai 540 marchi, donati dalla sovranità inglese per la difesa sicula e dell’Aquila dalle invasive imperiali, urtabili, dal medesimo trasferimento della sede episcopale da Forcona nel 1257, alla ecclesialità in nuova realtà urbana della Vallata dell’Aterno.

Fra Roma, Umbria, Toscana, la guelfa Aquila, venne distrutta da Manfredi nel 1259, poi, battuto a Benevento nel 1263, da Carlo D’Angiò, che come d’intesa col papa argina gli Svevi, definitivamente, ai Campi Palentini di Tagliacozzo nel 1268, vincendo l’adolescente Corradino, giustiziato in piazza del mercato a Napoli.

Nel mezzo delle due battaglie che avrebbero potuto mutare il corso della storia europea, il re angioino esaudisce le richieste di Jacopo Da Sinizzo, nunzio papale in Inghilterra e collante delle trame politiche sopra accennate, affinchè Aquila fosse ricostruita l’11 aprile 1265.

Gli Angioini conservarono i Giustizierati federiciani, che in ogni provincia, oltre ad essere sede di un importante tribunale e due corti, erano anche il vertice della gestione patrimoniale e finanziaria ricavata dalle tassazioni dei Comuni; fu diviso l’Aprutium in Citra (flumen Piscariae) et Ultra (flumen Piscariae), ma la ghibellina Sulmona decadde a favore di Aquila ed infatti sede di reggia angioina, seconda per “magnificenza” solo a quella napoletana.

Questo il piano di cronologia storica della fondazione aquilana, dalla lettura della quale, già si rintracciano degli elementi confutanti l’ipotesi della “città di Federico II” e ci riferiamo alla volontà imperiale di stabilire la primazia sulmonese, ossia, non insidiabile da altri poli urbani.

Orbene, delle origini della città non vi è menzione nei primissimi atti municipali a cura dei Gonfalonieri celestiniani del 1322; finchè, Buccio Di Ranallo nativo al quarto urbano di San Pietro a Coppito nel 1290, descrive nella sua “Cronica” del 1355-1362, il dinamismo sociale delle genti amiternino-forconesi che vollero avere sopra non più la tirannide, bensì la “majestade” della fondazione di una libera città alla Santa Maria di Acquili-Accula.

Si parla di un supposto diploma di Federico II costitutivo dell’Aquila, sul tramonto delle oligarchie municipali filo-angioine arresesi agli Aragonesi nel 1463, a mo’ di classi dirigenti volte a scrollarsi di dosso la patina dell’ancien regime e parimenti ad allinearsi al novus ordo.

Il conseguente indebolimento della città amplificava i moti scissionistici degli ex ‘99’ castelli confocolieri, allora, per voce del protonotario municipale Giovanfrancesco Accursio (padre di Mariangelo, lo storico e consigliere di Carlo V d’Asburgo e di cui diremo), si rivendica il diploma di Federico II di Svevia, come necessaria legittimazione della unità e promiscuità istituzionale fra “cives et comitanenses”.

Il diploma federiciano nel’500 lo si rispolvera ad opera del summenzionato Mariangelo Accursio per impedire, vanamente, che il Contado sia distribuito ai nobili spagnoli come sanzione imposta nel 1529, dal vicerè asburgico Emanuele Filiberto D’Orange, all’Aquila filo francese durante la lotta fra Carlo V e Francesco I per il possesso della penisola.

La “Cronica” del “poppletano” Buccio sulla fondazione dell’Aquila, viene ridimensionata dal clima culturale, perché l’Umanesimo rigettante le mitologie portava all’improbabilità nella grande conurbazione medievale di una latitanza imperiale che solo poteva conferirle forza e coesione territoriale, piuttosto che un flatus popolare alimentato dalla potestà clericale.

Lo storico marchigiano Pandolfo Collenuccio, rinvenendo nel 1539 all’Archivio del regno napoletano un diploma di fondazione dell’Aquila, ma senza data e firma, lo attribuisce nel suo “Compendio dell’Historia di Napoli”, a Federico II, eppure, nell’ambito della ricercata “libertà dei villani”.

All’eclissarsi della rivendicazione del Contado, ci sono variazioni sul tema: lo scrittore ed editore aquilano Giuseppe Cacchio, nel suo” Breve Trattato delle Nobili Città del Mondo e di Tutta Italia” del 1566, esalta l’ iniziativa popolare di contro ai”tiranni feudali”; lo scrittore aquilano Bernardino Cirillo, nei suoi”Annali della Città dell’Aquila con la Historia del Suo Tempo” del 1540, vede la città prendere il toponimo dal più fiero volatile, perciò, “reina di popoli e genti di contorno”, qui, notandosi, sia una negazione della simbologia imperiale da Corrado IV realmente accostata “in nomine Aquilam”, sia l’innaturale infeudamento spagnolo del Contado del 1529. Lo scrittore aquilano Salvatore Massonio, nel suo “Dialogo dell’Origine della Città dell’Aquila” del 1594, prende atto dell’improbabile reintegra del Contado all’Aquila la cui fondazione è mitologica in eredità delle “reliquie” di Amiternum e Forcona, ossia, la “libertà” prettamente civica opposta a quella dei ”villani”.

Tali digressioni ebbero un mutamento, allorquando nel 1566 appaiono a Basilea le “epistole” di Pier della Vigna, segretario dello “stupor mundi”, tanto che il diploma federiciano nel’600 non trova disconoscimento, sebbene lo scrittore aquilano Claudio Crispomonti individuasse la visione bucciana e massoniana nella fondazione dell’Aquila governata post Amiternum da magistrati repubblicani, e modellata secondo la “pianta di Gerusalemme”: una fantasmagoria che troviamo in un genere d’epoca sulle origini di varie città italiane, laddove, Bergamo era la traduzione della mitica Pergamo.

Le dinamiche afferenti alla “libertà dei villani”, nel “secolo dei lumi”, sono criticate dal giurista Carlo Franchi, che con la sua “Difesa per la Fedelissima Città dell’Aquila…”del 1752, vuole alla “ruralizzazione”  susseguente il sisma del 2 febbraio 1703 rimettere in moto la causa della “Buonatenenza” di rapporti fiscali fra la città e la campagna e confusi per le distruzioni telluriche: non si poteva che rimuovere in nome della “Dea Ragione” qualunque ipotesi di una Aquila fondata per un intreccio di fattori popolari-ecclesiastici.

Per il comparire del diploma di Corrado IV da un documento notarile del 1255 (riportato dal prelato e storico modenese Ludovico A. Muratori nel suo “Antiquitates Italicae Medii Aevi” del 1742), il vescovo aquilano Anton L. Antinori, grande erudito incaricato dallo “studium” muratoriano di redigere una raccolta di “Cronache aquilane” del 1783, ebbene, assevera di una città realizzata dal figlio di Federico II che l’avrebbe presupposta in eliminazione delle baronie circostanti l’acrocoro aternino: una tesi imperiale in toto e ribaltatrice della “congiura dei baroni” messa all’inizio della fondazione popolare di stampo bucciano.

L’immagine di una “civilitas urbani” antitetica a quella dei “villani” e per giunta (sic!) soccorsa dal papato, rimonta all’era risorgimentale, fra adesione plebiscitaria allo Stato unitario e liberalismo, come dalle asserzioni dello storico dell’arte aquilano Angelo Leosini nel suo “Monumenti storici artistici della città di Aquila e suoi contorni” del 1848, fino a taluni presupposti della “memoria storica” a favore della Grande Aquila nel 1927, finché la leggenda del diploma federiciano potrà essere smentita da uno studioso di fama, il siciliano Gennaro M. Monti, che nel suo ”La Fondazione di Aquila ed il Relativo Diploma” del 1933 (in Atti del Convegno Abruzzese e Molisano, I, Casalbordino, 1933), in modo scientifico affermerà la verità fattuale.

In sua disanima storico-filologica, Aquila, “il Comune più singolare del mezzogiorno d’Italia per i suoi ordinamenti affini a quelli del Centro-Nord italiano”, deriva per Monti da processi civili-ecclesiastici, ratificabili dal diploma di Corrado IV, non già di Federico II di Svevia. Passando in rassegna la mole dei lavori sull’argomento, il Monti individua due elementi, non valutati prima appieno filologicamente. Affermò che i documenti di Della Vigne (i cui originali furon persi!), comprendono pure le lettere post Federico II, al quale, peraltro, non può attibuirsi la firma et missiva per la nascita dell’Università di Napoli, che  avvenne invece ad opera del figlio federiciano; inoltre, il contenuto del diploma ufficializzante Aquila si deve ascrivere a Corrado IV, perché le parole di suo compiacimento per la città dall’emblema imperiale risuonano in altri documenti corradiniani, su tutti, quelli per la presa sveva della Napoli guelfa nel 1253.

Aquila, dunque, discende da processi civili-ecclesiastici in nuce (a piazza Duomo, non “sfocia” il futuro quarto di Santa Maria Paganica, a dimostrazione di una urbanizzazione non “teleologica”), diplomati da Corrado IV e non già dal padre Federico II all’insegna di un mutamento di gerarchia territoriale nell’Aprutium in formazione nel Medioevo, e ridiscusso dalla metà del secolo XIX.

In conclusione, Aquila è ”simia” di Roma, per dirla alla stregua del sannita e storico settecentesco Giuseppe Maria Galanti, diversamente dal filosofo tedesco Friedrich W. Nietzsche che disse in suo desiderio di venire alle falde del Gran Sasso di una città “anti Roma”, ma, appunto, “non vi è chi non si sia mai occupato della fondazione dell’Aquila… “.

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