PIRATERIA – LA LEGISLAZIONE INTERNAZIONALE ED ITALIANA

1 Marzo 2012
By

La pirateria è un fenomeno mondiale conseguenza della mancata sorveglianza delle acque prospicienti le coste da parte di taluni Stati costieri. Si tratta di Stati cosiddetti “falliti” come la Somalia o tali da non riuscire a mantenere efficacemente l’ordine nel proprio territorio e quindi incapaci di impedire atti di banditismo in mare.
I pirati si concentrano nei punti di obbligato passaggio per le navi, quali gli stretti (Bab El Mandeb ed Hormuz, per esempio) o i canali, facili da bloccare.
Gli attacchi armati a cargo, petroliere e navi da diporto sono classificati  “atti di pirateria” in quanto le motivazioni che li determinano sono relative al solo profitto economico.
Il fenomeno della pirateria moderna assume importanza fondamentale per le nostre economie visto che sulle rotte marittime transitano l’80% del traffico commerciale e il 50% del petrolio mondiale.
Il quadro giuridico di riferimento relativo alla pirateria è incentrato sulla Convenzione di Ginevra sull’alto mare del 1958 e sulla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 1982. L’Italia ha ratificato ambedue le Convenzioni. Negli ultimi anni il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha emanato una serie di risoluzioni volte a reprimere il fenomeno della pirateria marittima.
Nella Convenzione delle Nazioni Unite del 1982 (più nota come Convenzione di Montego Bay) la pirateria viene testualmente definita come: “ogni atto di abbordaggio di qualsiasi nave privata con l’intento di commettere un furto o altro delitto, con uso della forza nel corso dell’azione, per ricavarne profitto”. Tuttavia, il confine tra la pirateria e gli atti di terrorismo marittimo non è poi così netto come appare, sollevando così rilevanti questioni giuridiche in merito all’applicazione delle misure più adatte a debellare il fenomeno.

Per l’Italia la possibilità di imbarcare su navi mercantili che navigano in acque a rischio di pirateria sia team militari sia contractors è disciplinata dalla legge n. 130 del 2 agosto 2011. Per quanto riguarda i team militari, le cui spese sono a carico dell’armatore, il Ministro della Difesa ha adottato un decreto in data 1° settembre 2011 e l’associazione degli armatori (Confitarma) ha concluso un Protocollo con il Ministero della Difesa l’11 ottobre 2011.
Il personale militare opera secondo le direttive e le regole d’ingaggio diramate dal Ministero della Difesa e il comandante del nucleo ha la responsabilità delle operazioni volte al contrasto della pirateria. La precisazione è opportuna poiché al comandante della nave mercantile spettano compiti di polizia secondo il disposto dell’art. 1235, n. 2 Codice della Navigazione: in assenza di una precisazione legislativa, si sarebbe potuto creare un conflitto tra comandante della nave e comandante del team armato. L’art. 5 della L. 130/2011 conferisce al comandante del team armato ed ai suoi membri la qualifica, rispettivamente, di ufficiale e di agente di polizia giudiziaria in relazione ai reati di pirateria, di cui agli artt. 1135 e 1136 del Codice della Navigazione (Pirateria e Nave sospetta di pirateria) e ai reati connessi ai sensi dell’art. 12 del Codice di procedura penale. La disciplina, tuttavia, pone diversi problemi. Il primo riguarda l’uso delle armi: é escluso che i team armati a bordo delle navi mercantili possano dare la “caccia ai pirati”, compito esclusivo delle navi da guerra o delle navi in servizio di Stato, debitamente autorizzate e chiaramente contrassegnate (artt. 106 e 110 della Convenzione del diritto del mare). Altri problemi potranno sorgere qualora i pirati salgano a bordo della nave mercantile e siano catturati dal team militare. In tal caso, rilevanti sono le questioni attinenti la custodia dei prigionieri e la loro consegna ad un’autorità, che dovrà provvedere alla conseguente sanzione. Si tratta di problemi non irrilevanti, la cui disciplina dovrà essere ricondotta alle direttive impartite dal Ministero della Difesa. Il personale militare è soggetto al Codice Penale Militare di Pace.
La L. 130 consente di imbarcare anche guardie giurate a bordo delle navi mercantili italiane battenti bandiera italiana in alternativa ai team militari quando questi non siano disponibili. Le aree in cui possono operare le guardie giurate sono quelle individuate con decreto del Ministro della Difesa, sentiti il Ministro degli Affari Esteri e quello dei Trasporti, che terranno conto dei rapporti periodici dell’IMO (International Maritime Organization). Per quanto riguarda le guardie giurate non esiste una disposizione ad hoc circa l’uso delle armi analoga a quella dei team militari ed adattata alla necessità delle operazioni militari. La norma prevede soltanto che le guardie giurate possano utilizzare le armi in dotazione della nave, custodite in appositi locali e previa autorizzazione rilasciata all’armatore dal Ministero dell’Interno (art. 28 del testo unico delle Legge di pubblica sicurezza, R.D. 18 giugno 1931, n. 175).
L’utilizzo delle armi può aver luogo solo “entro i limiti territoriali delle acque internazionali”.
La L. 130 non prefigura l’ipotesi di imbarcare sulle navi team misti, composti cioè di militari e guardie giurate. Data la diversa disciplina giuridica sottostante, l’ipotesi sembra comunque improbabile.
In definitiva, la legislazione è ancora estremamente lacunosa e necessita di revisione e chiarimenti.
Quanto esposto non ha presunzione di esaustività: numerose sono le domande senza risposta e, soprattutto, quelle relative a chi sia in grado di far rispettare il Diritto Internazionale, se oggi si può ancora affermare che tale disciplina esista davvero.

 

 

 

 

Tags:

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Dieci anni

Archivio