L’ESERCITO E L’EPIDEMIA DI COLERA DEL 1867.

14 Settembre 2021
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di Carlo Luciani

Il colera

L’ epidemia più temuta nei secoli scorsi era indubbiamente quella del colera, sia per la velocità con cui si propagava sia per l’alto numero delle vittime che provocava. Nel 1866 e nel 1867 l’Italia fu colpita da due tremende epidemie di colera che provocarono centinaia di migliaia di morti ed anche in quelle occasione l’esercito fu chiamato a prestare soccorso. Edmondo De Amicis, allora ufficiale in servizio permanente dell’esercito, descrisse quei tristi avvenimenti, vissuti direttamente dall’autore, mentre si trovava in Sicilia, nel libro” L’Esercito italiano durante il colera del 1867”. Il mordo era presente sulla penisola già dal 1865 proveniente dall’Egitto e fu trasmesso nel 1866 a Palermo da alcuni soldati imbarcatisi a Napoli sulla nave “Tancredi”.

Il tenente Edmondo de Amicis

Edmondo De Amicis, uno dei maggiori scrittori italiani dell’ottocento, nasce a Oneglia il 21 ottobre 1846. Entra nel 1862 nel Collegio Candellero di Torino, dove riceve una adeguata preparazione per l’ammissione alla Scuola Militare di Modena da cui uscirà ufficiale effettivo, Partecipa alla battaglia di Custoza nel 1866, dopo di che  è inviato al Sud dove una violenta epidemia di colera rischiava di inasprire ulteriormente la drammatica situazione in cui versava la Sicilia. De Amicis all’epoca è un giovane ufficiale di carriera che scrive per la rivista “L’Italia Militare” giornale ufficiale dell’esercito; si distingue per la capacità di descrivere l’aspetto umano della vita militare, come farà in seguito in  alcuni suoi romanzi come Cuore, La Vita Militare, Racconti Militari,

L’Esercito dell’ottocento.   

L’esercito negli anni sessanta dell’ottocento stava vivendo una fase di radicale trasformazione ed era per lo più impegnato nella lotta al brigantaggio. Un serie di funesti fatti incisero negativamente sul morale degli ufficiali e della truppa : Il disastro di Custoza del 1866 e la rivolta di Palermo nello stesso anno, il colera e la sconfitta subita dai garibaldini a Mentana nel 1867, l’impegno nel soccorso alle popolazioni  dopo le alluvioni nel polesine del 1868 e la dura repressione dei moti del macinato del 1869. La sconfitta del 1866 portò ad una sensibile riduzione delle spese militari, dovuta anche ad una diminuzione del “peso politico” dei vertici militari. La conseguenza fu il ridimensionamento dell’esercito che passò da circa 350000 uomini a poco più di 140000.  Pertanto questo neonato Regio Esercito, ridotto nei numeri e con un bilancio minimo, impiegato male, comandato sulla base di regolamenti piemontesi vecchi e farraginosi,  non riusciva nell’intento di trasformarsi in un grande esercito europeo. Bisognerà aspettare la riforma Ricotti del 1870, basata sul modello prussiano, per avere una concreta ristrutturazione dell’esercito italiano.

Il soccorso alle popolazioni

De Amicis nel descrivere l’impegno dei propri soldati nelle attività di soccorso dopo il propagarsi del colera in Sicilia nel 1867, fa emergere, quanto fosse precario sia l’equipaggiamento sia l’operatività di quei poveri fantaccini a cui certo non mancava né il coraggio né la volontà. Accusati dalla popolazione, in maggior parte analfabeta e superstiziosa, di essere degli ”untori” di manzoniana memoria , i poveri soldati furono spesso presi a sassate o quanto meno accolti a molte parole, ma ciò non diminuì il loro altruismo che in qualche occasione fu anche causa del loro contagio e della successiva inevitabile morte.

Appena si ebbero i primi casi di morti per colera a Girgenti e Caltanisseta, il comandante della divisione di Palermo, generale Medici, dispose che venissero messe in essere tutti le predisposizioni atte a contenere il contagio. Furono istituiti diversi distaccamenti al fine di assicurare una presenza militare in ogni paese e villaggio del territorio; furono allestiti ospedali militari pei colerosi, infermerie per i sospetti, case di convalescenza eccetera. Tutti provvedimenti disposi da ogni comando militare regionale, furono attuati su tutto il territorio nazionale.

Il contesto dove operavano i soldati in Sicilia era desolante, anche a causa della carestia che aveva afflitto la regione dopo l’epidemia del 1866: quasi tutti gli esercizi commerciali erano chiusi o falliti, sospesa la costruzione delle strade ferrate; interrotte molte opere pubbliche; molte fabbriche chiuse; centinaia di famiglie costrette a nutrirsi di erbe e fichi d’india.  Inoltre la superstizione oltre ad un profondo rancore verso la istituzioni, fomentato ad arte dai nemici dei governo piemontese,  avevano convinto il popolo che l’epidemia fosse stata causata volontariamente dal governo allo scopo  di punire i siciliani per i moti di ribellione avvenuti l’anno precedente. Questo clima di ostilità non agevolava l’opera di soccorso dei soldati che dovevano anche contribuire a mantenere l’ordine pubblico, compito tutt’altro che facile. Per lo scarso numero di fanti impegnati nei soccorsi,  i turni di servizio divennero estenuanti tali da non permettere un riposo continuativo di più di due notti, riposo  che peraltro  i soldati passavano in stato di allerta in quanto il popolo in rivolta lanciava sassi o sparava in direzione delle finestre delle caserme.

Ma i reggimenti continuarono la loro missione tutt’altro che intimoriti: organizzavano collette per i più poveri, distribuivano viveri, portavano i pagliericci e medicine nei vari ospedali. Tenevano aperti di negozi di alimentari e nei forni, pensavano loro ad impastare e cuocere il pane. Molti soldati “divennero” per l’occasione infermieri, anche perché i civili non intendevano avere contatti con i malati. I comandanti erano impegnati a coordinare tutte queste attività e sempre più spesso dovevano prendere atto, con somma tristezza, della morte di fanti che per l’altrui bene contraevano il colera.

Atti di generosità e altruismo fatti dai fanti del 54rgt nella città di Caltanisseta; del 18 rgt a Terrasini; del 6 btg bersaglieri e del 10 rgt a Messina; del 58 rgt a Petralia Sottana; del 38 btg bersaglieri a Monreale; del 67 rgt e del 15 btg bersaglieri a Longobutto; del 68 rgt a Reggio Calabria; dai lancieri di Foggia a Misilmeri; dai bersaglieri del 25 a Rocca d’Anfo, eccetera.

De Amicis nel corso della narrazione descrive anche le ore serali in camerata quando i soldati si raccontano le varie esperienze: “ …si vedevano tutti quei soldati intenti all’appello con una immobilità che parevano statue…Il tale? – domandava il furiere- è stato colto dal colera un minuto fa; l’han già portato al lazzaretto – rispondeva il caporale-…”

Gli ufficiali intervenivano per infondere coraggio ma loro stessi si chiedevano quanti ancora sarebbero morti e se anche loro sarebbero sopravissuti.

Il compito più penoso e faticoso per i soldati era quello di seppellire i morti. In piena notte si formavano i drappelli destinati al triste incarico, anche perché erano cadaveri che nessuno voleva sotterrare perché in avanzato stato di putrefazione. La sepoltura avveniva, inoltre, senza nessun tipo di protezione!

Il libro si conclude con una frase emblematica: “E che premio ebbe il soldato? Grande. La sera dopo la visita della ritirata, il furiere gli lesse l’ordine del giorno del colonnello in cui gli si diceva: – Hai fatto il tuo dovere-.

Forse meritavano qualcosa di più. Come una menzione meritano le donne e gli uomini delle varie Forze Armate impegnate per l’emergenza del Coronavirus.

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