ANATOMIA DI UNA SENTENZA. La Consulta ha cancellato la mancata rivalutazione in base all’inflazione delle pensioni di poco superiori a 1400 Euro.

9 Maggio 2015
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Neutralizzata dalla Consulta l’aggressione ai pensionati

La notizia era nell’aria dell’austero palazzo della Consulta. Mancava tuttavia l’uniformità di vedute.

Alcuni giudici erano dalla parte della corrente “salvabilancio”. Altri dalla parte dei pensionati anche a costo di creare un vulnus nei già disastrati conti della finanza pubblica.

Negli ambienti parlamentari si fa riferimento ad una sentenza politica intesa a rimuovere  a qualcuno una immeritata aureola.

Un giudice meno avaro di giudizi ha commentato: questa volta il Governo ha esagerato. Ha esagerato perché seguendo lo slogan di Pretolini:  “I soldi si prendono dove ci sono. Dai poveri. Hanno poco ma sono molti”, ha allargato oltre misura la platea dei pensionati da “colpire”. Infatti la norma, non censurata dalla Consulta che prima prevedeva il blocco per pensioni superiori a otto volte il minimo INPS, era scesa a solo tre volte. Una esagerazione per quei giudici schierati dalla parte dei più deboli.

Una esagerazione in quanto i costi della politica erano rimasti inalterati.

La Consulta entra a gamba tesa contro il legislatore. Scrivendo di “irragionevolezza” della norma che lede l’interesse dei pensionati, in particolar modo dei titolari di trattamenti previdenziali modesti, tesi alla conservazione del potere di acquisto delle somme percepite, da cui deriva in modo consequenziale il diritto a una prestazione previdenziale adeguata. Tale diritto, costituzionalmente fondato, risulta irragionevolmente sacrificato nel nome di esigenze finanziarie non illustrate in dettaglio”.

In tal modo la Corte ha cancellato la mancata rivalutazione in base all’inflazione delle pensioni di poco superiori a 1.400 euro, significando che il blocco delle perequazioni si traduce in una imposta perenne reversibile come avevamo scritto su TM di novembre 2014.

A sollevare la questione di legittimità costituzionale erano stati, con varie ordinanze tra il 2013 e il 2014, il Tribunale di Palermo, sezione lavoro; la Corte dei Conti, sezione giurisdizionale per la Regione Emilia-Romagna; la Corte dei Conti, sezione giurisdizionale per la Regione Liguria. Secondo la Consulta, le motivazioni indicate alla base del decreto sono blande e generiche, mentre l’esito che si produce per i pensionati è pesante.

«Deve rammentarsi – si legge nella sentenza – che, per le modalità con cui opera il meccanismo della perequazione, ogni eventuale perdita del potere di acquisto del trattamento, anche se limitata a periodi brevi, è, per sua natura, definitiva. Le successive rivalutazioni saranno, infatti, calcolate non sul valore reale originario, bensì sull’ultimo importo nominale, che dal mancato adeguamento è già stato intaccato».

Da un attento esame della sentenza si avverte anche una certa acredine nei  riguardi del legislatore.  Quasi a punirlo: colpisce anche i pensionati con trattamenti economici modesti e lascia inalterati i costi della politica. Un monito forte e chiaro anche per i governi successivi.

Va anche ricordato in questa sede che la sentenza è passata a maggioranza e per un solo voto.

Occorre inoltre anche analizzare questo repentino cambio di tendenza: dalle sentenze salvabilancio a quella a tutela dei pensionati.

Il Governo in carica, con ministri alla prima esperienza governativa, preso dall’eccessivo protagonismo tutto rivolto a “noi andiamo avanti”, “dobbiamo cambiare l’Italia”, “come me non c’è nessuno”, “stiamo facendo cose non fatte in vent’anni”, ha sottovalutato le conseguenze di una simile pronuncia da parte della Corte. Per cui nessuna “velina”, come avveniva in passato, è stata inviata alla Corte richiamando l’attenzione dei giudici costituzionali delle conseguenze economiche/finanziarie che avrebbe provocato una sentenza favorevole ai pensionati, dimenticando, come scrisse a suo tempo quel  ministro: “se voi date troppo spazio ai pensionati distruggete il bilancio dello Stato. I ricorsi devono essere giudicati con rigore e se c’è da scegliere tra una interpretazione favorevole ed una meno, è preferibile la seconda”.

Secondo alcuni media la sentenza rende giustizia. Risultavano intaccati i diritti fondamentali connessi al rapporto previdenziale, fondati su inequivocabili parametri costituzionali: la proporzionalità del trattamento di quiescenza, inteso quale retribuzione differita (art. 36 Costituzione) e l’adeguatezza (art. 38). Quest’ultimo è da intendersi quale espressione certa, anche se non esplicita, del principio di solidarietà» (art. 2) e «al contempo attuazione del principio di eguaglianza», (art. 3).

Tuttavia è da sottolineare con forza e senza remore che un governo tacciato di “irragionevolezza” non può essere alla guida di un paese .perché, prima o poi,  certamente va a sbattere.

Attenzione. E’ errato prevedere la restituzione di quanto è stato tolto, come scrivono alcuni giornali.

L’INPS non deve restituire. Deve pagare quanto, in forza della legge “SALVA ITALIA”,   è stato illegittimamente non corrisposto.

A parere di chi scrive opportuno sarebbe aggiornare i trattamenti economici da corrispondere in conseguenza della sentenza ed in un secondo tempo corrispondere gli arretrati, se non in contanti, con Btp come avvenne nel 1958.

Vincenzo Ruggieri

 

 

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