E’ MORTO A ROMA SHLOMO VENEZIA, UNO DEI SOPRAVVISSUTI DEL CAMPO DI AUSCHWITZ-BIRKENAU

2 Ottobre 2012
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«E già sentiamo arrivare l’oblio. L’unica cosa che rimane è ciò che bisogna
sapere per gli esami scolastici. Scorderemo anche quanto c’era di incredibile
nell’atrocità? Sì, come il resto. Che cosa fare per non dimenticare?»


Riprendo quanto affermava nell’agosto del 1944 Léon Werth, all’indomani delle notizie della morte di Shlomo Venezia, della messa in vendita su Amazon.com di un puzzle di 252 pezzi che raffigura i forni crematori di Dachau, dell’archiviazione da parte della Procura di Stoccarda dell’inchiesta per la strage nazista di Sant’Anna di Stazzema, dell’affermarsi di frange neonaziste nel tessuto sociale di stati in crisi, come la greca “Alba dorata”.

Shlomo Venezia era l’ultimo italiano vivente dei reduci dei “sonderkommando”, gli addetti allo smaltimento dei cadaveri delle camere a gas, destinati alla cremazione. « Aver concepito ed organizzato i Sonderkommandos è stato il delitto più demoniaco del nazionalsocialismo. […] Attraverso questa istituzione, si tentava di spostare su altri, e precisamente sulle vittime, il peso della colpa, talché, a loro sollievo, non rimanesse neppure la consapevolezza di essere innocenti »: così ha scritto Primo Levi ne “I sommersi e i salvati”, esprimendo anche una sorta di condanna («corvi neri del crematorio») che però invitava al contempo a una riflessione («credo che nessuno sia autorizzato a giudicarli, non chi ha conosciuto l’esperienza del Lager, tanto meno chi non l’ha conosciuta»). Venezia tacque fino alla metà degli anni ’90, quando cominciò a raccontare, soprattutto ai più giovani, agli studenti che accompagnava anche nei “viaggi della memoria” , fino alla pubblicazione, nel 2007 di “Sonderkommando Auschwitz”. Sino ad allora il senso di colpa e la sofferenza interiore lo avevano costretto a tacere sulle vicende di cui era stato testimone, accomunato in questo al destino della gran parte dei sopravvissuti, perché non era stato creduto, perché nessuno voleva ascoltare gli ex deportati. L’uomo privilegia l’istante (che si riferisce al tempo individuale) rispetto alla durata (che riguarda il mondo collettivo). Nel tempo la nostra esistenza entra in rapporto con ciò che ci precede e con ciò che segue: senza la dimensione della memoria (quindi della appartenenza) collettiva l’uomo non ha “coordinate”, la storia non si struttura e non ci è possibile “collocarci”, con il rischio di banalizzare tutto. Così il presente, che deve essere costruito su una storia conosciuta e accettata, viene minato dal non detto di quello che è stato definito “contro-Illuminismo”. D’altra parte la memoria è selettiva e determina l’oblio, favorendo anche l’abbaglio: allora che fare, a chi affidarsi? La nostra arma è dunque la Storia. Non basta cioè il solo ricordo (storico): mai come in questi anni si è tanto parlato della shoah, dei crimini nazisti, mai nelle scuole si è tanto affrontato il tema del razzismo, eppure mai come ora xenofobia, razzismo, antisemitismo sono progrediti, e idee basate sull’ineguaglianza ottengono tanti voti, per cui al prezzo di 20 euro più spese di spedizione ed eventuali spese doganali nella categoria, «giocattoli per bambini dagli otto anni in su» è possibile acquistare il puzzle con la foto dei forni crematori.

Walter Benjamin affermava che il corso delle cose, se abbandonato a sé stesso, conduce sempre alla catastrofe, lo storico Jules Isaac, dalla trincea, metteva in guardia i contemporanei: «Diffidiamo dunque dei nostri ricordi storici: lungi dall’aiutarci a comprendere, ci manipolano, ci fanno perdere su false piste, ci espongono a mosse errate […] Cieco, incosciente e cieco […] chi non vede che le stesse parole non significano più le stesse cose». Occorrono approccio critico, ed insegnamento politico e civico del nostro tempo, così che abbia un senso l’affermazione di Jean Jaurès: «Sull’altare degli antenati, conserviamo la fiamma e non la cenere».

David ADACHER

 

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